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Svolta su Giulio Regeni, i testimoni raccontano la verità

Giulio Regeni

Testimoni chiave nell’inchiesta sulla morte del ricercatore Giulio Regeni, arriva la svolta. «Ho visto Giulio Regeni torturato e in catene, l’hanno ucciso nella stanza 13»

La Procura di Roma, che ha chiuso le indagini sul sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni, in Egitto, ha raccolto le dichiarazioni di due testimoni oculari: uno ha visto il ricercatore nella caserma dove è stato arrestato, l’altro nel luogo dove è stato ucciso

La Procura di Roma — che stamane ha notificato, con le norme previste per gli indagati «irreperibili», la chiusura delle indagini per il rapimento, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni — ha raccolto le dichiarazioni di due testimoni oculari che hanno visto il giovane ricercatore italiano in due in due distinte caserme delle forze di sicurezza egiziane.

Uno la sera stessa del sequestro, il 25 gennaio 2016; l’altro qualche giorno dopo, in catene e con evidenti segni di tortura sul corpo. I testimoni sono stati rintracciati grazie alle indagini difensive dei familiari di Regeni, con l’avvocato Alessandra Ballerini.

Il procuratore Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco li hanno chiamati, a protezione della loro identità e sicurezza, con i nomi di copertura Delta e Epsilon.

Ecco la sintesi dei due racconti, riportata dai magistrati durante l’audizione davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e la morte di Regeni.

La testimonianza del teste Delta
In base all’atto di conclusione delle indagini, Regeni venne condotto «contro la sua volontà e al di fuori di ogni attività istituzionale, prima presso il commissariato di Dokki e successivamente presso un edificio a Lazougly» dove venne «privato della libertà personale per nove giorni».

Riferisce il teste Delta:

«Il 25 gennaio, mentre ero nella stazione di polizia di Dokki, potevano essere le 20 o al massimo le 21, è arrivata una persona… Avrà avuto tra i 27 e i 28 anni, aveva una barba corta, indossava un pullover, verosimilmente tra blu e grigio, se non ricordo male con una camicia sotto… Si esprimeva in italiano e ha chiesto un avvocato… Sono sicuro che si trattasse di Giulio Regeni. Nelle foto che ho visto su internet aveva la barba più lunga.

Mentre ero alla stazione di Dokki ho visto arrivare il ragazzo che solo successivamente ho riconosciuto come Giulio Regeni che, mentre percorreva il corridoio, chiedeva di poter parlare con un avvocato o con il Consolato. In quel frangente ho visto bene il ragazzo italiano, che arrivava con quattro persone in abiti civili. Contestualmente ho visto uno di questi quattro soggetti con un telefono in mano».

Più avanti Delta precisa che Regeni «è stato fatto salire su un’auto modello Shine, è stato bendato e condotto in un posto che si chiama Lazoughly. Uno dei poliziotti che si trovavano lì veniva chiamato Sherif… un altro si chiamava Mohamed, ma non so se è il vero nome».

Inoltre, mentre Regeni «chiedeva un avvocato, un altro arrestato, che provava ad aiutarlo, riceveva una gomitata al volto da un poliziotto che disse che il ragazzo italiano parlava anche arabo».

Così è morto il ricercatore, secondo la Procura di Roma: la ricostruzione

La testimonianza del teste Epsilon
Nella caserma di Lazoughly c’era il testimone Epsilon che, rintracciato e interrogato il 29 luglio scorso, ha raccontato di avere lavorato per 15 anni nella struttura «dove Regeni è deceduto», cioè «nella sede della National security che si trova all’interno del ministero degli Interni e che prendeva il nome della via: si chiama struttura Lazoughly, direzione Lazoughly».

Si tratta, dice Epsilon, di «una struttura in una villa che risale ai tempi di Abd Al Naser, che poi è stata sfruttata dagli organi investigativi. Sono quattro piani e il piano d’interesse è il primo, la stanza è la numero 13… quando viene preso qualche straniero sospettato di tramare contro la sicurezza nazionale viene portato in quella sede lì.

Era il giorno 28 o 29 (gennaio, ndr), ho visto Regeni in quell’ufficio 13 e c’erano anche due ufficiali e altri agenti, io conoscevo solo i due ufficiali. Entrando nell’ufficio ho notato delle catene di ferro con cui legavano le persone… Lui era mezzo nudo nella parte superiore, portava dei segni di tortura e stava blaterando parole nella sua lingua, delirava… Era un ragazzo magro, molto magro…

Era sdraiato steso per terra, con il viso riverso… L’ho visto ammanettato con delle manette che lo costringevano a terra… Ho notato segni di arrossamento dietro la schiena, ma sono passati quattro anni, non ricordo bene i particolari. Non l’ho riconosciuto subito, ma cinque o sei giorni dopo, quando ho visto le foto sui giornali, ho associato e ho capito che era lui».

Le parole del teste Gamma
Prima di questi due testimoni, il pm Colaiocco aveva ascoltato, nell’aprile 2019, il teste Gamma, di cui si era già avuta notizia e che ha riferito di aver assistito a un incontro tra il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif — uno degli indagati per il sequestro, ora accusato anche delle torture e dell’omicidio di Giulio — e un collega keniota, cui avrebbe confessato, durante un incontro a Nairobi, di avere picchiato il ricercatore italiano, sospettando che fosse un agitatore.

Ecco il racconto di Gamma: «Nel 2017, nel corso del mese di agosto, ero in un ristorante ed era presente una persona che poteva essere egiziana. Successivamente entrava nel ristorante una persona che presumo fosse keniota, appartenente ai servizi di sicurezza del Kenya.

I due uomini, l’egiziano e il keniota, hanno cominciato a discutere riguardo le situazioni che si sono venute a creare a Nairobi, in tema di ordine pubblico, e riguardo a movimenti di protesta in Kenya…

Quando ha terminato di parlare il keniota, l’arabo ha cominciato a parlare di uno studente italiano, un dottorando, che stava cercando di fomentare un piccolo gruppo di persone al fine di avviare una rivoluzione. Il keniano, in risposta a quando diceva l’arabo, affermava che anche secondo lui gli europei sarebbero cattive persone.

L’arabo continuava il suo racconto affermando che questo italiano poteva essere un appartenente alla Cia, citò anche il Mossad. Continuava dicendo che loro avevano scoperto che era appartenente alla Fondazione Antipode, che spingeva per l’avvio di una rivoluzione in Egitto.

A un certo punto, secondo quanto raccontava l’egiziano, loro ne avevano avuto abbastanza, avevano anche avviato delle intercettazioni. Un giorno avevano sentito dalle intercettazioni che doveva andare a una festa in zona Tahrir, e prima che raggiungesse un ristorante a piazza Tahrir loro lo avevano fermato.

L’egiziano usava la prima persona plurale raccontando queste questioni. Loro, gli egiziani, erano molto arrabbiati e l’arabo, usando la prima persona singolare, affermava di averlo colpito. A questo punto il keniota chiedeva al suo interlocutore egiziano il nome del soggetto di cui parlava, e l’egiziano rispondeva dicendo: Giulio Regeni.

Prima dei saluti, loro si sono scambiati dei biglietti da visita, il keniano ha pronunciato “Ibrahim Magdi Sharif” e l’egiziano ha confermato essere il proprio nome».

Sulla base di queste testimonianze, e di molti altri elementi raccolti nel corso di ormai quasi cinque anni di indagini caratterizzati da un’interlocuzione con i magistrati egiziani a dir poco complicata e intermittente, la Procura di Roma ha chiuso le indagini e si appresta a chiedere il processo per il maggiore Sharif (accusato anche di omicidio), il generale Tariq Sabir, il colonnello Athar Kamel Mohamed Ibrahim e il colonnello Uhsam Helmi (gli ultimi tre accusati solo di sequestro di persona). Per un quinto indagato, l’agente della Direzione di sicurezza nazionale Mahmoud Najem, è stata chiesta l’archiviazione «non essendo gli elementi raccolti sufficienti, allo stato, a sostenere l’accusa in giudizio».

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