Si è spento a 107 anni Gillo Dorfles. Lo straordinario critico d’arte triestino è morto nella sua casa a Milano. A renderlo noto è stato il nipote spiegando che le condizioni fisiche dell’artista erano peggiorate nelle ultime 24 ore
Si potrà dire che è morto dentro un’età senza tempo. Registrabile in una dismisura difficile da immaginare. Che avremmo con curiosità accolto se solo ci avessero avvertito che la sua vita si era svolta in qualche remoto villaggio dell’Anatolia dove i vecchi scalano impunemente le classifiche dei primati della longevità. Invece, fino all’ultimo, Gillo Dorfles ha abitato i centri della modernità, le grandi realtà urbane come Milano, Parigi, New York, Chicago o Tokio. Città nelle quali amava soggiornare, per visitare una mostra, incontrare qualche amico, curiosare tra le nuove architetture. Accadeva di vederlo a qualche rassegna, o convegno, e poi sedersi compostamente, ascoltando con apparente attenzione le parole di un relatore.
Ma chi fu realmente quest’uomo che indossò il Novecento, con la stessa eleganza con cui vestiva gli abiti confezionati dai migliori sarti? Era nato a Trieste da una famiglia borghese e vista la data in cui fu messo al mondo – il 1910 – si considerava un cittadino dell’impero absburgico. Una di quelle figure a un tempo notarili e curiose, severe e disponibili che avevano abitato la vecchia Mitteleuropa. Della Trieste dei primi del Novecento – quel luogo che fu incrocio di spiriti colti e temerarie avventure culturali – Dorfles succhiò il meglio. L’amicizia con Bobi Bazlen e Leon Fini, le frequentazioni con Svevo e Saba, il fenomeno della psicoanalisi. A questo proposito, dopo una laurea in medicina pensò a una specializzazione in psichiatria. L’arte – che gli avrebbe occupato il resto della vita – era ancora un episodio laterale, un sintomo labile e incerto. Quello spirito inquieto volgeva l’interesse alla musica e soprattutto alla pittura. A quei primi tentativi che lui stesso con qualche severità eccessiva definiva “scarabocchi”.
Ma fu in fondo il sentirsi, in qualche modo artista, che lo spinse a fare dell’arte l’oggetto delle sue riflessioni, della sua passione: così intrinsecamente militante da mutargli la vita e il destino. La particolarità di quest’uomo è stata di aver respinto con fermezza il ruolo di storico dell’arte e di rivestire quello più aggressivo di critico. Sospetto che fu una tale distinzione a irritare uno studioso come Cesare Brandi che si ergeva peraltro a figura dominante del mondo dell’arte. “Se solo avesse capito la metà dei libri che ha letto, avremmo di fronte uno studioso di statura internazionale”, disse con ironia Brandi. Si era lasciato andare al commento maligno dopo la lettura de Le oscillazioni del gusto. Quel libro, in realtà, metteva a fuoco un cambio di registro, un’attenzione tutt’altro che semplicistica al mutare di un’epoca. Erano finiti gli anni Sessanta e con essi anche quel modo di indagare i fenomeni estetici fondato sull’idea dei valori eterni e dell’autonomia dell’arte. Dorfles non era insensibile allo sviluppo dei “mezzi meccanici”, alle prime apparizioni dei computer che trovavano applicazione nella musica, nella grafica, nella poesia e perfino nella pittura.
Naturalmente, tutto questo stonava con l’idea che l’opera d’arte avesse una funzione universale nel formare il gusto, rendendolo un’esperienza autentica. Il gusto non era più dettato, orientato, legittimato da una sparuta élite di cultori. Non proveniva da un’educazione certa e condivisa. Occorreva prendere atto che si era acuita la sensibilità dell’uomo della strada e che l’arte “utilitaria” – con la sua produzione di oggetti in serie, con il design e la pubblicità – stava prendendo il posto dell’arte “pura”. Fu in questo contesto che Dorfles ripensò la categoria del Kitsch: dapprima come espressione del cattivo gusto, sempre più sfrenato e ubiquitario, in seguito come parte integrante dell’arte stessa.
Uno dei suoi libri più riusciti fu L’intervallo perduto, con cui inaugurò gli anni Ottanta. Anticipava, secondo me, di qualche anno, le analisi che Bauman avrebbe condotto sulla “società liquida” e Augé sui “non luoghi”. L’uomo contemporaneo – rifletteva Dorfles – ha perso la consapevolezza del proprio tempo vissuto; si illude di vivere con pienezza questo tempo, quando, in realtà, egli è diventato prigioniero di un eterno presente. Ne conseguiva – grazie anche al dilagare del mezzo televisivo – quella che lui chiamò la “perdita di credibilità” nella quale lo spettatore non era più in grado di distinguere fra tragedia vera e artefatta. Tutto questo avrebbe trovato un’ulteriore sistemazione, nella seconda metà degli anni Novanta, quando Dorfles mise a punto la distinzione tra “fatti” e “fattoidi”. Tra ciò che noi esperiamo realmente e quel mondo fittizio e simulato nel quale sempre più trionfa lo pseudoevento.
Per essere stato un critico – attento alle trasformazioni dell’opera d’arte – Dorfles non rinunciò mai a lanciare uno sguardo acuto sul costume e le mode della nostra contemporaneità. Del resto era ciò che lo interessava, insieme alla sua diletta pittura. Come artista non diede l’impressione di possedere sufficiente originalità. Si lasciò influenzare da quella “pittura intelligente” che aveva trovato in Klee e Mirò le sue espressioni più compiute e potenti. Fondò, con un gruppetto di artisti, nel 1948 il Mac (movimento arte concreta); battagliò con estrema convinzione contro le derive figurative ma con risultati incerti e modesti.
Al visitatore occasionale mostrava con reticenza le sue opere. Non che non fosse convinto della riuscita del proprio lavoro. Ma come se, da qualche parte nella sua testa, risuonasse il sospetto di una possibile disapprovazione, il dubbio che quei lavori fossero nel caso migliore un hobby e, al peggio, il frutto di un tradimento, di un conflitto di interessi esploso in chi è giudice e al tempo stesso giudicato.(da La Repubblica)