Amava il mese di giugno, James Joyce, uno dei più straordinari, geniali ed innovatori scrittori del Novecento, perché in quel mese colorato e luminoso del 1904 aveva conosciuto Nora Barnacle, una carnalissima e trasgressiva cameriera per la quale perse la testa fino a diventarne succube e che diventerà la donna della sua Vita, anzi il suo «splendido fiore selvatico».
Nora fu destinataria di lettere debordanti amore e passione («Adorna il tuo corpo per me, carissima, sii bella e felice e amorosa e provocante, piena di ricordi, piena di desideri, quando ci vediamo. Ti ricordi i tre aggettivi che ho usato nel mio libro parlando del tuo corpo? Sono “musicale e strano e profumato”. Il tuo amore per me dev’essere feroce e violento»), ma anche di desideri ruvidi e sfacciati («nell’intimo di quest’amore spirituale, esiste anche un desiderio selvaggio, bestiale, di ogni centimetro del tuo corpo») che sfociavano in oscenità irriferibili in cui lo scrittore manifesta anche pulsioni masochistiche (Sono il tuo bambino, come ti ho detto, e tu devi essere severa con me, piccola madre. Puniscimi quanto vuoi. Vorrei che tu mi picchiassi, frustassi perfino. E non per gioco, cara, ma sul serio e sulla carne nuda. Vorrei che tu fossi forte, amore, molto forte, con un seno enorme e due cosce grandi e tornite. Come vorrei che tu mi frustassi Nora, mio amore!)
Il 16 giugno, data del loro primo appuntamento, fu per questo geniale e anticonformista irlandese talmente importante, che la trasformò nella data in cui si svolge la vicenda del suo capolavoro “Ulisse”.
Joyce si definiva «sospettoso, solitario, insoddisfatto e orgoglioso» ed era vero.
Carattere difficile il suo: era metodico (tutte le sere alle 21 cenava sempre allo stesso ristorante), cocciuto e sprezzante (agli eventi mondani rimaneva ostinatamente silenzioso, limitandosi a rispondere con dei laconici “sì” o “no” alle domande degli imbarazzati interlocutori), profondo conoscitore ed amante di Dante che recitava platealmente in italiano e a memoria (ma solo quando era ubriaco).
Fu anche un accanito fumatore, sofferente di diabete, reumatismi articolari acuti e delirium tremens, affetto da incontrollate fobie per topi, cani e temporali (da bambino quando sentiva i tuoni si rinchiudeva negli armadi e da adulto urlava torcendosi le mani), vittima di un’insonnia incurabile di notte e di allucinazioni uditive di giorno.
La sua esistenza fu costellata da sofferenze fisiche e spirituali (gli morirono giovanissimi cinque dei suoi nove fratelli), ma la causa principale della sua angoscia era la grave forma di schizofrenia di cui soffriva sua figlia Lucia, rinchiusa, per queste gravi turbe mentali, nella Clinica psichiatrica di Zurigo da dove praticamente non uscirà mai.
Come se non bastasse, Joyce subì ben 12 interventi chirurgici agli occhi per cercare di debellare una pervicace congiuntivite che lo tormenterà tutta la Vita e per la quale spesso lo si vede ritratto con una benda agli occhi.
Nell’Aprile del 1923, a 41 anni, si vide asportare tutti i denti, perché considerati dai medici i focolai responsabili della grave e ostinata infezione agli occhi.
Ma tutti questi gravissimi problemi non gli impedirono di creare capolavori: “Gente di Dublino”, “Ritratto dell’Artista da giovane” (conosciuto in Italia come “Dedalus”), “Ulisse”, “Finnegans Wake” non sempre accolti con entusiasmo da pubblico e critici, cosa che gli procurava rabbia e frustrazione.
L’uso caleidoscopico che Joyce praticò dello stream of consciousness, il flusso di coscienza, ovvero la libera e alogica rappresentazione dei pensieri, una colata lavica di ricordi/sensazioni/citazioni/allusioni, scompaginò tutta l’organizzazione sintattica e sistematica della grammatica narrativa tradizionale e diede impulso a nuove correnti e a nuove costruzioni narrative.
Umberto Eco coniò per lui il termine di finneghismi per indicare la splendida, irriverente, giocosa inventiva linguistica di Joyce che si divertiva ad inventare termini nuovi, come ad esempio “oromogio”, ovvero un orologio che suonava solo nelle ore tristi.
Insieme alla sua amata Nora, venne a vivere in Italia: dapprima a Trieste, dove strinse amicizia con Italo Svevo ed Ezra Pound e poi per qualche mese a Roma (abitarono un appartamento in via Frattina) come impiegato di banca per poi far ritorno nuovamente a Trieste, città che ebbe sempre nel cuore.
Da qui si trasferirono a Parigi (dove rimasero vent’anni) ed infine, alla fine del 1940, a Zurigo.
Qui l’11 Gennaio 1941 James si sentì male: perforazione gastrica fu la diagnosi.
Lo trasportarono d’urgenza in una clinica per sottoporlo ad un ennesimo intervento chirurgico, cui egli si oppose con tutte le sue forze, convinto che non si sarebbe risvegliato dall’anestesia.
Si risvegliò, Joyce, guardò sorridendo la sua Nora e poi entrò in coma irreversibile.
Morirà 2 giorni dopo, il 13 gennaio, a 59 anni.
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