Le famiglie Rovis, Lupieri, Micoli Toscano Crosilla e Spinotti scelsero la via dell’emigrazione, stagionale o definitiva, con l’obiettivo di trovare nuovi sbocchi per le proprie attività legate all’artigianato della filiera del tessile o per i vari investimenti mercantili o fondiari. Tra alterne vicende questa migrazione ebbe fine nel corso dell’Ottocento con i cambiamenti economici legati all’avvento della produzione industriale. Con il termine migrazioni alpine ci si riferisce generalmente ai flussi migratori di uomini e donne che si realizzavano all’interno o a partire dall’arco alpino italiano e non. Recentemente gli studi sulle migrazioni alpine hanno permesso di rivedere alcuni stereotipi infondati riguardanti le migrazioni e gli studi migratori in generale. In particolare, a essere fortemente rivista è la teoria di una mobility transition, secondo cui la società europea sarebbe passata, fra la fine del Settecento e l’inizio del Novecento, dalla quasi sedentarietà a tassi elevatissimi di migrazione. In precedenza gli studi sulle migrazioni montane erano stati messi in ombra dal maggior interesse riservato alle migrazioni transoceaniche in particolare verso l’America Meridionale.
Grazie alla loro riscoperta, nelle scienze antropologiche, storiche e sociali è venuto in uso chiamare „modello alpino“ un modello che cerca spiegazioni non mono-casuali e non limitate a categorie spazio-temporali dei fenomeni migratori. In particolare sono venuti meno approcci basati su modelli „push-pull“ o focalizzati sul ruolo catalizzatore svolto dalle città nei confronti della campagna o di aree considerate a torto come più povere, ad esempio la montagna. Come invece avevano già sottolineato diversi studiosi in passato, le emigrazioni dall’arco alpino non erano necessariamente motivate dalla povertà e dal bisogno di incrementare il proprio reddito, ma erano anzi “di qualità”, rientrando all’interno di dinamiche complesse dentro e fuori lo spazio montano1. L’industria tessile già nel Medioevo era l’industria più importante in Europa e di conseguenza propiziava attività commerciali legate ad essa. Il caso del flusso migrato- rio dalla Val di Gorto verso l’Istria si inserisce benissimo in queste dinamiche poiché le attività primarie di queste famiglie della cosiddetta “borghesia alpina” erano in primis la tessitura e la mercatura ovvero il commercio. In effetti tra l’Istria, il Friuli e la Carnia esistevano commerci reciproci di lunga durata rappresentati da vari generi come l’olio d’oliva, il vino, il sale e dall’altra parte il grano friulano, il legname o i bovini castrati carnici. Le condizioni della Carnia erano tali che lasciavano ampi spazi all’emigrazione in cerca di nuove prospettive di sostentamento. L’emigrazione, stagionale o definitiva, era una scelta necessaria presso tutti gli strati sociali, anche nelle poche famiglie facol- tose dell’area. D’altra parte l’Istria non era sicuramente una regione in condizioni floride al contrario le sue ristrettezze e i limiti strutturali non davano molte chance ad un take off dell’economia locale. La scarsa densità abitativa dava la possibilità agli immigranti di inserirsi nel circuito sociale ed economico della penisola adriatica.
Si tratta di un fenomeno sociale caratteristico ed esteso a tutta l’area del Mediterraneo. Per Braudel il montanaro dell’Europa meridionale si trasformava per alcune settimane o per alcuni mesi all’anno, in venditore ambulante: periodicamente scendeva dai monti per vendere i propri prodotti (latte, formaggio, carne, pelli, manufatti e tessuti), in cambio dei prodotti di costa o di pianura di cui le comunità dell’entroterra erano prive e di cui sentivano il bisogno (sale, olio e vino, soprattutto). Un movimento che si ripeteva di anno in anno regolarmente, scandito dalle stagioni e immutato per secoli3. Anche in Carnia, tuttavia, come in tante altre regioni alpine, l’emigrazione stagionale annuale era più consistente, quella temporanea limitata, quella definitiva, pre- sente in misura anche significativa durante il Seicento, conobbe lunghi periodi di stasi, in particolare nella prima metà del Settecento, ma riprese vigore a fine secolo quando già si intravedevano i primi segni del disfacimento del sistema economico tradizionale. Assenti gli uomini per buona parte dell’anno, il tardo autunno, l’intero inverno e la primavera, d’estate le montagne si ripopolavano e si rianimavano.
L. Zanini nel suo lavoro sulla casa in Carnia afferma: “Erano in massima parte, uomini del medio Gorto e della Val Pesarina i carnici che secoli addietro scendevano in Friuli per inoltrarsi lungo il Litorale e approdare in Istria, a gestirvi aziende mercantili e botteghe di tesseri e sartori. Aziende e botteghe condotte, successivamente, da generazioni di cramars e di artigiani, sui quali, però gli studiosi del loro tempo non fanno parola.”
L’area dell’emigrazione carnica era molto vasta e lo spostamento verso l’Istria era soltanto una parte di questo largo fenomeno che andava da Ferrara e Venezia fino a Sopron in Ungheria, da Salisburgo in Austria fino all’Istria o a Karlovac in Croazia. Come è già evidente dall’analisi delle fonti storiche l’emigrazione dei cargnelli in Istria non era un’emigrazione povera o almeno non lo era in quella sua parte nella quale si spostarono verso l’Istria i membri delle famiglie più importanti e facoltose delle valli car- niche. Anch’essi erano in parte costretti a cercare di allargare il propio giro d’affari al di fuori della Carnia là dove le condizioni lo permettevano. Lo spostamento di queste famiglie facoltose coinvolgeva anche molti loro impiegati e dipendenti carnici che molto spesso si sono accasati in Istria staccandosi dai vecchi datori di lavoro. L’impiego di questo tipo di manodopera era favorito dalla solidarietà tipica di tutti gli emigranti ma an- che dal fatto che molto spesso in questo modo mantenevano gli impegni legati ai rapporti famigliari o a semplici legami di appartenenza regionale. La differenziazione sociale presente in Carnia si trasferiva allo stesso modo in terra d’Istria mantenendo i ruoli e gli equilibri preesistenti. Comunque l’emigrazione poteva portare buoni guadagni e di conseguenza il miglioramento dello status economico.
Anche nel caso dell’emigrazione verso le terre tedesche c’era una chiara divisione del lavoro e una distinzione dei ruoli marcata. Per i mercanti c’erano distinzioni necessarie tra i Landmaterialisten (‘materialisti’ di campagna) e gli Stadtmaterialisten (‘materialisti’ di città); e, tra i primi, fra chi conduceva gli affari, rischiava e intascava i denari, ed aveva diritto ad uno o più portatori (il ‘patrone’), chi portava da sé la sua crassigne e bussava alle porte (l’Hausierer) ed il “servitore“ che per un salario supponiamo misero portava le mercanzie altrui (il träger) e, tra gli stanziali, fra chi mercantava al confine dell’illecito, affittuale precario di un magazzino di cui nemmeno possedeva la chiave, e chi era ormai aggregato alla città, aveva negozio aperto in piazza ed ambiva a diventare Kaufmann o magari Handelsmann. Discorso simile vale per i tessitori.
In che cosa consisteva l’attrattiva dello spostamento in Istria? In primo luogo l’allargamento del giro d’affari legato all’attività artigianale tessile e al commercio. In se- condo luogo gli investimenti fondiari e il prestito ad usura. Era quasi una questione di prestigio per queste famiglie possedere importanti terreni in Istria, che gli garantivano l’olio d’oliva e il vino. Il legame di queste famiglie con i luoghi d’origine viene evidenziato dal fatto che si riferiscono sempre alla Carnia come la Patria e addiritura nelle corrispondenze epistolari usano il verbo apatriarsi come sinonimo di partire per la Val di Gorto.
La disponibilità di liquidi in un’economia dove il soldo gira poco facilitava ai carnici vari tipi di investimento come le soccide, i contratti a colonia o il semplice affitto dei loro beni stabili posseduti in Istria. Le soccide potevano essere soltanto per un piccolo numero di animali vaccini o lanuti e in questo modo facevano muovere l’economia locale svolgendo un ruolo tutto sommato positivo. A questo tipo di contratto ricorreva un gran numero di contadini locali segno che esisteva una forte domanda di liquidi e investimenti nel mercato agricolo locale. “Qui c’è una miseria orribile e non si vede un soldo in valuta“…in questo modo veniva descritta la situazione dell’economia locale all’inizio dell’Ottocento.
Nel caso di queste famiglie anche il commercio al minuto, ovvero l’attività di negoziante, andava di pari passo con le altre attività svolte. Il negozio dei Lupieri a San- vincenti nel 1793 vendeva un assortimento variegatissimo che andava dai fazzoletti di Linussio fino ai capelletti alla Schiavona. La difficile situazione delle realtà istriane si evince da una lettera di Valentino Lupieri al fratello Giobatta del 1813: “Ho posto in vendita il vino, ed in una settimana non ne ho venduto quindeci boccali: ciò vi sia di norma, per conoscere la miserabilissima situazione di questa Provincia“. A Pinguente dove c’erano all’epoca una ventina tra tessitori e sarti, i Micoli Toscano possedevano una bottega di mezzelane, sete e altri tessuti con un giro d’affari abbastanza importante che andava da Montona fino a Rozzo.
Nel gennaio 1511 Michele del Canal di Gorto, più che probabilmente di Ovaro, aveva acquistato una partem botege textorie a Montona. Da allora, una lunga teoria di tessitori dei villaggi delle parrocchie di Ovaro e Luincis aveva imboccato la “strada dei furlani“ che menava in Istria: i documenti, relativamente rari per il Cinquecento, divengono fitti nel Seicento, e fittissimi nel Settecento. Con certezza, nell’anno 1679, numerosi uomini delle ville delle due parrocchie erano partiti verso la penisola istriana, o vi stanzionavano, o ne erano ritornati. Ora, nell’elenco stilato dai merighi, compaiono soltanto i tessitori recatisi nella contea di Pisino. Così da Agrons e Cella “Mathio Ruvis con doi fioli, GioBatta et Pietro da Ruvis: questi tre nell’Istria, luogo imperiale”, da Mione “Zuane De Franceschi con un suo fiolo, Zuane d’Erman: questi tre nell’Istria, luogo imperiale”; da Luint “Anzolo del Fabro, mogliato nell’Istria, luogo imperiale”. L’Istria veneta, dove documentatamente ed in grande maggioranza si trovavano gli approdi tradizionali degli abitanti di quei villaggi, non rientrò nelle risposte, poiché non era inclusa nella domanda. C’erano anche altre fonti che documentavano la loro presenza come il testamento di Iacobo Carlevariis di Luincis, dettato a Pedena, nel 1540.
L’estate era anche il mese in cui gli uomini, prima di partire, stipulavano i contratti di procura con cui lasciavano facoltà alla moglie, ad un parente, ad un fiduciario di regolare i loro affari; era la stagione in cui tanti emigranti preoccupati della prossima partenza, dell’età che avanzava, dei pericoli cui potevano andare incontro, redigevano i testamenti prima di intraprendere il loro viaggio: “Dovendo … ritornarsene nelle parti di Bavera al negotio e trafico delle sue merci, che colà tiene … alla cadente sua senil età d’anni 63 circa … non ha voluto perciò partire da queste parti senza disponere con tutta rettitudine delle sue cose”. Il fervore dell’attività nei mesi estivi è testimoniato dai protocolli notarili: convinzioni, francazioni, livelli si contraevano soprattutto nei mesi tra giugno e agosto. In quelle brevi estati concitate, i montanari celebravano le loro nozze; consumavano i loro amori.
Un altro fattore importante era sicuramente il tipo di insediamento antropico tipico della Carnia adatto per un trasferimento nelle località medio-piccole dell’interno dell’Istria dove non c’era un sistema logistico di comunicazioni molto sviluppato. L’insediamento umano in Carnia, a differenza di quello di altre aree dell’arco alpino, è caratterizzato da un fitto tessuto di centri abitati di dimensioni molto ridotte, generalmente di poche decine di case. Mancano, quindi, sia i villaggi di dimensioni medio-grandi, sia i masi sparsi. Per le l’attività legate alla filiera del tessile non c’era bisogno di insediarsi nelle città più grandi e abitate ma andava bene la delocalizzazione sul territorio del potenziale mercato al quale si rivolgevano.
I Rovis a Gimino (secoli XVII-XX)
Il cognome deriva da Ruvis, un toponimo ovvero una località dell’abitato di Claudinico che in friulano significa rupe o dirupo.
La famiglia Rovis a Gimino era presente dalla prima metà del XVII secolo quando i figli di Francesco di Giacomo Rovis provenienti da Agrons, originari però dalla vicina località di Claudinico, vennero in questo borgo nel centro dell’Istria il quale era per la sua posizione geografica, a metà strada tra la parte settentrionale e meridionale della penisola e a poca distanza dalle coste orientali e occidentali, un emporio importante per i commerci e l’artigianato. Insieme a località come Corridico, Buie, Ver- teneglio, San Vitale e Stridone (Sregna) era uno dei principali centri per la tessitura in Istria. La centralità della sua posizione era accentuata dal fatto che si trovava su un’antica arteria stradale che tagliava l’Istria in due parti partendo da Pola fino al nord della penisola. Il vasto comune di Gimino era anche densamente abitato al contrario di altre parti dell’Istria che non si potevano sicuramente vantare di queste caratteristiche. Nella prima metà del XIX secolo il borgo contava 534 anime e tutto il territorio con San Mat- teo e Montecroce 322613. Queste cifre collocavano l’area di Gimino tra le più dinami- che dell’interno dell’Istria, dunque una meta favorevole per i migranti carnici in cerca di nuovi mercati propizi ai loro commerci e alle loro attività artigianali.
La prima traccia dei Rovis a Gimino la troviamo nella lista dei membri della Confraternità di San Giovanni Battista della quale faceva parte Tommaso de Rovis nel 1641. Nella loro terra d’origine nel 1613 Francesco figlio di Giacomo Rovis di Cludinico sposò Maria del fu Giacomo Jacomutti di Agrons, ultima discendente di una famiglia feudale che portava in dote una cospicua serie di beni che furono presto venduti (nel 1615), probabilmente per far fronte alle spese relative ad un’attività commerciale incipiente. La passione amorosa o la cospicua dote di Maria Jacomutti dovevano essere state un motivo sufficiente perché Francesco Rovis ignorasse il divieto paterno di sposarsi con lei. Per aver disubbidito al padre, però, Francesco fu diseredato, come si evince dal testamento che Giacomo Rovis dettò nel 1620, precisando che il figlio ribelle doveva “essere escluso in perpetuo […] perché esso è stato disobediente, et maritato senza licenza d’esso padre testatore, abandonandolo ancora, con esser andato ad habitare sopra li beni del quandam Jacomo Jaconutta de Agrons, in Generezza, et fatto commodo de beni di fortuna”. Alcuni dei discendenti di Francesco svilupparono attività commerciali tra la Carnia e l’Istria, com’era comune nelle famiglie carniche dell’Età moderna. I loro affari si dividevano, concretamente, tra la Carnia e l’Istria arciducale. Parte dei Rovis di Agrons, infatti, si insediò a Gimino, pur continuando a mantenere strettissimi legami con i parenti rimasti nel villaggio di origine. Quest’ultimo, Agrons, era un minuscolo villaggio di una decina di case e con una quarantina di abitanti divisi in fuochi ovvero nuclei famigliari. I più importanti nella stratificazione della struttura sociale del luogo erano i Rovis, i Del Monaco (presenti in Istria a Verteneglio, Portole, Petrovia e in altre località), i Jacomutti e i Fabris, i Bulfon, i Vernier nonché un gruppo di famiglie di fittavoli e coloni anch’essi legati alle famiglie più facoltose da vari rapporti di dipendenza contrattuale. Spesso erano originari dalle aree limitrofe di montagna, come il Cadore, il Canale del Ferro e le montagne del pordenonese. La prima testimonianza in questo senso è quella relativa alla morte di Maria Pascuttini, di Vito d’Asio, la cui famiglia viveva ad Agrons ed era inclusa tra i coloni di Giovanni Corva di Muina. Nello stesso secolo note simili compaiono anche per i membri delle famiglie Tolazzi e Gardel originarie di Moggio, della famiglia Facchin (probabilmente fittavoli dei Rovis), della famiglia Galante di San Francesco d’Asio, degli Zanier, dei Matelich di Faedis, dei Francescutti e dei Baschiera di Clauzetto, dei Longhino del Canal del Ferro, dei Toneatti di Asio, dei Marta del Comelico, dei Brovedan di Clauzetto (coloni degli Agarinis nel luogo di Povolaro sotto la Veneranda Pieve), dei Rassatti (affittuari dei Corva prima e dei Rovis in seguito) o dei Maieron (fittavoli dei Rovis). Molti di questi cognomi sono presenti anche in Istria, nel caso di Gimino, ad esempio i Galante insediatisi nella campagna di Gimino dove esiste un villaggio che porta ancora oggi questo nome nella sua variante croata (Galanti). Un’analisi di questo tipo conferma la scelta dell’emigrazione, stagionale o definitiva, in tutte le fasce della società carnica di quell’epoca.
I rapporti di dipendenza sociale ed economica potevano essere trasferiti anche nella nuova patria d’adozione come nel contratto di apprendistato del 1764 nel quale Leonardo Tolazzi abitante in Gorto stipula un contratto di apprendistato per suo figlio dodicenne Antonio con Giovanni Battista del fu Francesco Rovis di Agrons. Il ragazzo rimarrà agli ordini dello stesso Rovis per sette anni, durante i quali imparerà l’arte sartoria e lo seguirà nei suoi spostamenti annuali tra la Patria del Friuli e l’Istria. Le condizioni della famiglia del garzone erano talmente precarie che il Rovis si era preso l’onere di vestire da capo a piedi il ragazzo e in cambio il contratto di apprendistato era stato prolungato di due anni.
A Gimino era già presente una comunità di artigiani carnici come si evince dai cognomi delle anagrafi di Gimino della fine del XVII secolo; Battista, Della Marina, De Marinis, Della Biava, Dell’orto, Cossetto, Lupieri, Urban, Vidonis, Galant, Del- fabro, Dell’osto, Marini, Marta.
Dal villaggio di Agrons e Cella c’era già da qualche tempo un flusso continuo di famiglie di artigiani carnici verso Gimino e lo confermano i dati delle anagrafi istriane e carniche e la presenza di queste famiglie nel luogo d’origine nel Canale di Gorto nello stesso periodo. Per quanto riguarda i consorti Rovis la loro presenza rimase stagionale per un lungo periodo di tempo e a settembre, finita la stagione calda, partivano dall villaggio d’origine in Val di Gorto per passare il resto dell’anno a Gimino mantenendo un forte legame con le radici carniche. La scelta delle mogli e l’allevamento dei figli erano legati strettamente al luogo d’origine. In questo modo avevano sviluppato una dicotomia tipica degli emigranti carnici in Istria, ovvero quella di vivere allo stesso tempo sia nella penisola che in Carnia. Una specie di doppia residenza favorita dagli interessi economici poiché il legame con la „Patria“, come la chiamavano i carnici istriani, era sancito dal possesso di vari beni immobili che essi mantenevano nel tempo. Pur avendo sviluppato con successo le proprie attività come tessitori soltanto più tardi sceglieranno di trasferirsi loco et foco a Gimino, infatti non sono documentati nelle anagrafi parrocchiali di questo periodo.
Nel periodo 1662-1714 non ci sono annotazioni di battesimi di appartenenti a questa famiglia a Gimino. La prima traccia scritta istriana dei Rovis è del 1710 quando a Sanvicenti era nata Antonia la figlia del domino e mistro Antonio e della moglie legittima Giovanna. La coppia ebbe altri tre figli battezzati nella chiesa dell’Annunziata di Sanvincenti fino al 1718; Maria, Zuanna e Giovanni Antonio. Il primo decesso di un Rovis a Gimino documentato nelle anagrafi di Agrons fu quello di Giacomo di Giobatta del 1733, obijt in Domino in partibus Istriæ in loco vocato Gimino, et eius cadaver tumulatum fuit in eodem loco. Sic relatum fuit mihi. Nello stesso anno morirono a Gimino Giovanni Battista e Antonio di Giacomo Rovis.
Nella 1766 Maria Michieli moglie di Francesco Rovis nel suo testamento si era lamentata di essere stata abbandonata dai figli che avevano seguito il padre a Gimino, segno forse di un trasferimento definitivo. Soltanto il figlio più giovane Matteo era rimasto ad Agrons con la madre e per questo motivo gli aveva donato la sua parte della dote paterna. Nel 1761 Francesco aveva trovato la moglie per il figlio Giovanni Battista nella patria d’origine. Non era un caso singolare quello dei matrimoni combinati. In mancanza del padre poteva svolgere lo stesso ruolo qualche parente stretto come Be- nedetto Fiorencis di Sanvincenti che era intervenuto per far sposare la figlia della so- rella con Giacomo di Francesco Rovis nel 1789. All’epoca la maggior parte dei matrimoni erano combinati dai genitori e dalle famiglie valutando lo status sociale, materiale o la religiosità e la buona fama della famiglia.
La religiosità della famiglia viene testimoniata dal fatto che molti suoi membri fecero parte del clero; a Gimino morirono nel 1779 e nel 1784 i sacerdoti Giovanni Battista e Antonio Rovis: R.dus D. Antonius qm Francisci Rovis natus Villæ Agrons sed incola Gimini in partibus Istriæ per 30 et pluries annos, ætatis suæ annorum 55 circiter obijt in Domino munitus omnibus Sacramentis die 7 Aprilis proxime elapsi, sicuti mihi relatum fuit, et eius cadaver tumulatum fuit ibi ritibus sacris, et hodie publicata fuit eius mors cum solita prece. Il profondo sentimento religioso lo intuiamo anche dal testa- mento del 1813 dove Giovanni Battista del fu Francesco Rovis di Agrons, possidente dell’età di 72 anni, dispone le sue ultime volontà prima di passare a miglior vita. Dispone che i figli dispensino 25 centesimi a ciascuno dei poveri che l’accompagneranno alla sepoltura, oltre alla solita elemosina di cibarie. Dispone anche che i figli, entro un anno dalla sua morte, distribuiscano 200 fiorini ai poveri del territorio di Gimino. Ordina ai figli di far celebrare 300 Messe nel Cantone di Rigolato in Carnia entro un anno dalla sua morte e nei venti anni successivi nonché altre dieci Messe nel giorno dell’anniversario.
Ad Agrons nel 1682 Matteo e Antonio consorti Rovis avevano fatto costruire una chiesetta privata dedicata a Santa Fosca, una santa molto venerata nella bassa Istria e nella zona di Gimino dove si trova una grande chiesa a nordovest del paese sulla sommità della collina gemella di Gimino alla quale la località deve anche il nome. Il denaro guadagnato dagli ottimi affari in Istria e la grande devozione religiosa dei Rovis stava alla base di un’impresa di questo tipo. La chiesa dedicata a questa santa era l’unica in Carnia e la pala d’altare ritrae Santa Fosca, Sant’Agata e Santa Caterina da Siena, su un altro dipinto ritroviamo invece Santa Caterina d’Alessandria. Le tre sante erano oggetto della venerazione popolare in questa parte dell’Istria dal Medioevo ed avevano chiese importanti nelle tre località che delimitavano le attività dei Rovis; Canfanaro, Gimino e Sanvincenti. I nomi femminili dedicati a queste sante erano una consuetudine costante della devozione popolare fino al XX secolo. La devozione religiosa della famiglia è testimoniata dai numerosi sacerdoti tra i Rovis e dal mecenatismo nella costruzione di edifici sacri. La più antica cappella votiva del terrritorio di Gimino era stata fatta erigere da Giovanni Battista Rovis di Giacomo nel 173429 dedicata alla Vergine Maria.
Anche nella chiesa di Gimino i Rovis avevano fatto costruire a loro spese una cappella con il loro stemma raffigurante una rapa, simbolo della Carnia. Lo status sociale raggiunto in Carnia dai Rovis era stato confermato dal matrimonio di Caterina Rovis con Floreano Micoli nel 1733. Il padre Antonio era già residente in Istria ed il matrimonio con la famiglia più importante della valle era sicuramente il riconoscimento dell’importanza raggiunta dalla famiglia.
Le strategie matrimoniali erano importanti e lo confermano anche il contratto matrimoniale tra Giacomo di Francesco Rovis e Antonia Fachinetti di Sanvincenti del 1789, nel quale tutte e due le parti contraenti portarono una cospicua dote, e il matrimonio di Giacomo di Michele Rovis e Regina di Matteo Lupieri di Sanvincenti del 1830. I Rovis di Gimino continuavano a possedere beni immobili anche nella zona di Ovaro dove nel 1837 gli eredi di Francesco Rovis vendono “alla pubblica asta” a Giovanni q. Giovanni Micoli Toscano un prato con arativi, GioBatta q. Francesco Rovis vende a Giovanni q. Giovanni Micoli Toscano il prato Laudì sul monte Prencis e nel 1850 Giacomo di Michele Rovis vende a Giovanni Micoli Toscano un prato e un bosco sullo stesso monte.
I Rovis possedevano numerosi terreni e una ventina di edifici a Gimino tutti raggruppati sotto la piazza principale. Il giro d’affari della famiglia comprendeva una vasta area dell’Istria interna. Appartenenti a questa famiglia vivevano anche a Canfanaro dove possedevano un complesso di case e stabili. A Monpaderno c’era nel 1820 il sarto Bernardo Rovis che aveva delle attività che si estendevano fino al territorio di Montona dove nel villaggio di Caroiba saltuariamente svolgeva la propria attività. Lavoravano come tessitori a Pedena e a Chersano, ovvero dei rami famigliari si erano trasferiti in modo stabile in queste contrade. Nelle immediate vicinanze delle loro case a Gimino c’erano le case degli Erman, un’altra famiglia di tessitori proveniente dal Canale di Gorto ovvero dal villaggio di Mione. Il fatto che le loro case erano ai margini del paese e che possedevano alcuni terreni nelle vicinanze, fuori dall’abitato evidenzia il fatto che in paese erano arrivati dopo i Rovis e la loro attività non era solo la tessitura e l’artigianato ma erano anche agricoltori. Gli Erman sono numerosi nei vari contratti custoditi presso l’archivio dei Micoli Toscano a Mione.
Nel corso del tardo Settecento e del primo Ottocento, probabilmente in seguito alle mutate condizioni economiche i rapporti tra il ramo istriano e quello carnico della famiglia si affievolirono notevolmente. Nella prima metà dell’Ottocento il ramo agronese della famiglia si assottigliò e finì con l’estinguersi, mentre quello istriano continuò a prosperare. La separazione tra i due rami non era ancora stata consumata nel 1813, quando Giovanni Battista del fu Francesco Rovis di Agrons risulta avere numerosi beni in Istria, in comproprietà con suo fratello Giacomo che viveva a Trieste. Presso un Rovis a Trieste aveva pranzato Giovanni Antonio Micoli Toscano, come si evince dalla sua corrispondenza epistolare, durante uno dei suoi spostamenti da Mione a Pinguente, riconfermando i forti legami presenti tra gli emigranti carnici. Nello stesso periodo vengono vendute alcune proprietà dei Rovis in Carnia ai Micoli Toscano. La separazione, patrimoniale e morale, tra i due rami si consumò probabilmente attorno al 1841, anno in cui Leonardo del fu Matteo Rovis di Agrons vende a suo nipote Giacomo del fu Michele Rovis domiciliato a Gimino tutti i beni di sua proprietà che si trovano a Gimino e che gli sono stati assegnati in seguito alla divisione dei beni con i suoi fratelli Antonio, Michele e Francesco. Come nel caso dei Lupieri la vendita o la permuta e la rinuncia ai possedimenti in Istria significava la rottura dell’ormai secolare collegamento dei vari rami famigliari divisi tra le località montane del Friuli e le borgate istriane. Comunque per quanto riguarda i Rovis il potere economico e la proprietà immobiliare era in mano ad un nucleo centrale, discendente direttamente dal primo Francesco in linea maschile e forse per diritto di primogenitura, distinto nella gestione del patrimonio dai vari rami cosiddetti collaterali della famiglia.
Nello Status animarum della parocchia di Gimino nella prima metà dell XIX secolo erano numerosi i Rovis distinti per soprannomi per distinguere i vari rami siccome la famiglia si era decisamente allargata durante il Settecento. Erano moltissimi i fuochi dei Rovis raggruppati tutti nella stessa contrada dove svolgevano le loro attività artigianali e commerciali. Alcuni nuclei famigliari risultano avere uno status sociale più elevato degli altri, i cittadini: molto probabilmente i possidenti sono differenziati dagli artigiani, sarti, tessitori e calzolai. Questo sintomo di stratificazione sociale urbana era presente in tutte le realtà istriane.
Infatti tra gli abitanti del borgo troviamo Antonia Fachinetti vedova di Giacomo Rovis detto Ierolimich, cittadino, nella stessa casa viveva il figlio organista Francesco (1791-1836), Antonio e la figlia Catterina. Nello stesso edificio c’era ancora Francesco Rovis con le figlie Maria e Antonia. In un’altra casa c’erano la vedova di Antonio Rovis detto Ignazio Anna con il figlio Francesco. Poi Tommaso Rovis (1774-1835) detto Toruz del fu Bartolomeo con la moglie Giovanna Andrias e i figli Maria e Bortolomeo. Poi c’era Rosa Rovis la vedova del muratore il fu Daniele Mengotti e i suoi 5 figli. Pietro Rovis detto Pagniok, di professione sarto e Catterina Fillich sua moglie con i sei figli; Fosca, Santa, Rosalia, Maria, Giacomo Antonio e Anna Maria. Al numero civico 64 viveva la famiglia di Francesco Rovis (1776-1865) del fu Matteo, cittadino, con la Moglie Giovanna Giorgis (1779-1854) e con il figlio Antonio. Insieme a loro viveva Leonarda Maria di Giobatta di Bellé dal Friuli moglie di Antonio Rovis (1821-1857). Maria Rovis figlia del fu Giobatta Rovis e sorella di Matteo vedova di Matteo Prencis con la zia Eufemia Onofrio vedova di Giacomo Rovis. Con loro c’era la serva Fosca Starcich da Gallignana. Sempre nella stessa casa abitava Matteo Rovis di Giobatta detto Battistut sposato con Giovanna Straolino con i figli Giovanni Battista, Antonio, Giovanni Antonio, Matteo e Lucia. Nelle vicinanze stavano il fabbro Bortolo Rovis del fu Domenico e in una casa contigua Giovanni Ro- vis detto Rossich con la moglie Catterina Cinich. Poi nella casa di Michele Rovis (1760-1840) del fu Matteo, cittadino, c’erano il figlio Giacomo (1794-1855) con la moglie Regina Lupieri, figlia del fu Matteo Lupieri di Cargna . Quella di Michele era sicuramente una delle famiglie più facoltose dei vari rami Rovis di Gimino. Subito dopo c’era Domenico Rovis fu Bartolomeo detto Toruz (1772-1847) e la moglie Antonia Motica. Poi nella casa di Mattio Rovis del fu Giobatta detto Battistut ora di Antonio Rovis di Matteo vivevano Olivo Comin, di mestiere strazer, straccivendolo, sua moglie Rosa Cozarins e la figlia, oriundi dal Friuli. Maria Rovis, Politico, di Antonio viveva con il marito Leonardo Subiotto, fabbro. Giuseppe Rovis detto Turnar di Giovanni faceva il sarto, mentre Giovanni fu Francesco Turnar il calzolaio. In un’altra casa viveva un altro calzolaio; Antonio Rovis (1781-1845) sposato con Giovanna Cuhar. Il cittadino Francesco Rovis Battistut viveva insieme alla moglie Marianna Brovedan con i figli Giuditta, Valentino, e Napoleone. Il matrimonio tra i due consorti era stato molto probabilmente combinato in Carnia dove fece la sua parte il medico Giobatta Lupieri di Luint adoperandosi per Maria(anna) Brovedan la quale gli aveva lasciato prima di partire per l’Istria nel 1825 i suoi beni posseduti in Carnia per i tanti benefizi ricevuti dallo stesso. I testimoni erano stati Francesco Beorchia e Giobatta Mecchia i quali hanno firmato per l’analfabeta Maria(anna).
Antonio Rovis viveva con la moglie Catterina Franellich e il padre vedovo Agapito e di mestiere faceva il fallegname, marangone. Maria Antonia Rovis viveva con il marito Giovanni Tassotti di Giacomo, calzolaio. In altre case dei Rovis sempre nella stessa contrada c’erano Maria Jurcota vedova di Matteo Rovis Battistin. Il sarto Andrea Rovis detto Turnar e Tommaso Rovis di Giacomo che faceva lo stesso mestiere. Matteo Rovis (1774-1857) detto Bobich era sarto e possidente ed era sposato con la conterranea Teresa Rovis (1778-1843) fu Valent di Claudinico in Carnia; la località d’origine di tutti i Rovis istriani. Il tessitore Martino Rovis detto Kargnelich da Chersano era sposato con Maria Potrat. Un altro sarto Francesco Rovis sposato con Antonia Carlovich, Maria Rovis detta Toruz sposata con il fabbro carnico Antonio Tassotti e la vedova del cittadino Valentino Rovis; Pasqua Potrat. Nella casa di sua proprietà viveva Giovanni di Francesco Rovis detto Turnar, calzolaio, sposato con Maria Crisanaz.
Il caso di una famiglia allargata di queste dimensioni era sicuramente atipico per l’Istria di quel periodo, infatti difficilmente possiamo trovare un caso analogo in altre realtà istriane dell’entroterra. Soltanto a Dignano e Rovigno, che erano le città più popolate dell’Istria, c’erano esempi di questo tipo. La loro presenza e la valenza sociale ed economica in tutti i campi della società locale era la dimostrazione del ruolo che ave- vano raggiunto i Rovis nella loro patria d’adozione.
Nella vicina Canfanaro nello stesso periodo c’erano due nuclei dei Rovis, il sarto Bortolo (1754-1844) con la moglie Domenica Balarin e il fratello tessitore Michele (1758-1839)38.
Degli Erman in questo periodo c’erano Giovanni Erman (178-1804) detto Vadagniel e Domenico, contadini, Giacomo Erman anche lui dello stesso mestiere, suo figlio Michele (1750-1836) che faceva il macellaio come Giuseppe Erman di Tommasso. La vedova di Santo Erman Santa e Mattio Erman detto Sostar. Nella stessa casa vivevano il fabbro Giovanni Erman di Antonio e la moglie Maria Rovis.
Inoltre nel borgo di Gimino c’era una folta colonia di carnici che svolgevano i più vari mestieri; il tessitore Giovanni Battista Revelant (1792-1845) viveva con la moglie Eufemia Raunich e con i 4 figli. Il calzolaio Fedele Carlevariis (1768-1843) spo- sato con Maria Modrussan possedeva una grande casa all’entrata settentrionale del paese che più tardi sarebbe diventata l’osteria di Carlo Pelosi. Facevano lo stesso mestiere Giuseppe Battistin (1773-1839) e Giacomo Longo del canale di Gorto che viveva con la moglie Teresa e il fratello Natale. Il figlio di Natale Giacomo, nato il 15 aprile 1792 di mestiere calzolaio, era stato trasportato ed accasato in Istria dalla località di Entrampo dov’era originaria la famiglia.
Giacomo Mecchia (1793-1838) sposato con Giacomina di Giobatta Zanier faceva il sarto come il figlio Giovanni Battista (1811-1840). Giacomo si era risposato in seconde nozze con Teresa vedova di Giovanni Cleva da Canfanaro. Viveva nella stessa casa la loro parente Elisabetta vedova di Giovanni Maria Mecchia. Lorenzo Antonio Candido della Cargna viveva nella casa di Michele Rovis e faceva di mestiere il chirurgo. Il tessitore Antonio Mecchia (1796-1862) viveva con la moglie Maddalena Bearz (1799- 1847) e Marianna Gonan di Giobatta (1829-1847). Giuseppe Monte viveva con la moglie e i tre figli svolgendo l’attività di fenestraio. Bortolo Cramar e il vedovo Giobatta Miss dal Friuli facevano i contadini, mentre Paolo Vernier (1785-1835) sposato con Agnese Orbanich svolgeva l’arte della tessitura nel villaggio di Pamichi. In paese c’era un’altra famiglia di cargnelli che vivevano nella stessa casa i Vezzi; Angelo Fortunato faceva il sarto mentre la moglie Antonia Cuchiaro la levatrice. Era dello stesso mestiere la vedova Maddalena Vezzi nata Debegliuch, Francesco Saverio Vezzi viveva con la figlia Candida e faceva il fabbro.
Ancora nel 1892 Antonio Rovis e Giacomo Erman Bortulina facevano il mestiere di tessitori e Giovanni Rovis il sarto. Altri Erman e Rovis gestivano delle osterie tra le due guerre mondiali. Gli altri appartenenti di questa famiglia si occupavano di vari mestieri sempre nell’ambito dell’artigianato. La famiglia Rovis in Carnia si era estinta nella seconda metà dell’Ottocento mentre a Gimino erano numerosi e le famiglie con questo cognome si dovevano distinguere con i vari soprannomi. Alla fine del XIX secolo si occupavano di vari mestieri artigianali, tra questi anche quello di sarto e tessitore anche se sembra che la potenza economica della famiglia non fosse più quella di prima. Nella prima intitolazione delle vie urbane di Gimino nel XIX secolo esistevano la via Ermani e la piazza dei tessitori. Nel 1945 erano 16 le famiglie Rovis, 13 a Gimino paese e 3 nei dintorni, mentre i nuclei famigliari degli Erman erano 11. Insieme come numero di nuclei erano di gran lunga le famiglie più numerose di Gimino e da soli rappresentavano il 20 % della popolazione del borgo.
L’innesto di questa famiglia di tessitori provenienti dal Canal di Gorto nella realtà socio-economica di Gimino è sicuramente un esempio di emigrazione di successo durata per secoli e mantenutasi nel tempo. I Rovis avevano dato un importante apporto alla comunità nella quale si erano inseriti diventando una parte integrante e importante della società giminese.
I Lupieri a Sanvincenti
Il primo dei Lupieri47 di Luint48 a Sanvincenti, secondo le memorie del medico Giovanni Battista Lupieri, era stato il mercante il nonno Giobatta Lupieri (1701-1752), che aveva fatto degli investimenti fondiari e che qui si era arricchito con il commercio di tabacco. Il padre di Giobatta, Matteo o Mattia Lupieri era un notaio e lo apprendiamo da un atto del 1700 legato alla ristrutturazione della chiesa di San Rocco di Agrons dopo il terremoto che aveva colpito la Carnia e specialmente il Canale di Gorto. Il mistro e domino Matteo Lupieri fu presente a Sanvincenti nel periodo dal 1710 al 1715 come testimone di battesimo in più occasioni. Dunque la presenza della famiglia in Istria risale al periodo a cavallo tra il Seicento e il Settecento. Suo nipote Giovanni Battista Lupieri (1776-1871) descrive in questo modo nella sua autobiografia il trasferimento della famiglia in Istria:
“Questa famiglia, di qui si hanno memorie quasi di quattro secoli, fece specialmente col commercio dei tabacchi a S. Vincenti nell’Istria qualche fortuna. Fece mio Avo paterno (GioBatta fu Matteo) colà qualche acquisto, e qualche capitale, a vantaggio della casa paterna e della famiglia, che serbò sempre domicilio nella Carnia”.
In realtà alcuni testamenti custoditi nell’Archivio Lupieri-Magrini e numerosi contratti di compravendita dei secoli XVII e XVIII stanno a testimoniare la duplice residenza della famiglia Lupieri tra Carnia e Istria già verso la metà del Seicento nel borgo di Gimino, come primo insediamento stabile dei Lupieri in terra d’Istria.
È del 29 luglio 1669 un atto notarile in cui si parla dell’Istria, redatto dal notaio Antonio Fabris di Cella, in cui si parla dell’Istria, catalogato come Instrumento di pagamento di Valentino Lupieri di Lunardo fatto a suoi nipoti ut intus:
In Cristi Nomine Domino
L’anno della sua Natività 1669 q.ma Ind.e giorno di Lunedì 29, Luglio fatto nella Villa di Luinto Quart.o di Gorto, nella Caneva di domino Francesco Roter à ciò presente il medesimo Roter ed domino Lorenzo Michel, et domino Leonardo Furlano ambi tre di Luinto stessi segni di fede et …
Il Reverendo domino Antonio Lupieri, insieme con domino Lunardo suo fratello figlioli del qm domino Lunardo, hora stancianti nel Castello di Gimino Provincia dell’Istria, qui presenti, per essi e loro heredi et successori et confessano et manifestano d’haver hoggi havuto et recevuto tutto quello che di ragione gli aspettavano della heredità dello domino loro et padre suddetto. Lo domino Valentino Lupieri loro zio di Luinto et questo mediante la compusicione di buoni et Comuni amici, cioè ducati 125, et soldi 62 parte in conti et parte in tanta robba.”
Lo zio Valentino di Luint ebbe poi un figlio notaio Mattio che visse a lungo a Sanvincenti e che, rimasto vedovo, in seconde nozze sposò Maria Trecenta di Sanvincenti da cui ebbe due figlie: Zanetta e Maria sposata con il carnico Bortolo Giacometti di Sanvincenti.
Mattio fu quello che, stando al dottor Giovan Battista, accrebbe il patrimonio familiare in Istria dove morì a Sanvincenti il 19 maggio 1729 e come dispose scritto nel suo testamento fu sepolto nella Chiesa Matrice del paese situata nella piazza del borgo.
Dal primo matrimonio con Leonarda Gottardis di Ovaro aveva avuto due figli: Giovan Battista (1701) e Nardo (1710) che andò prete. L’erede Giovan Battista, come gli antenati, mantenne la residenza a Luint dove viveva per metà dell’anno e dove sposò Maddalena Gortano di Luincis.
Giovanni Battista morì nel 1752 lasciando tre figlie e un figlio ancora in età minore Valentino. La vedova si trovò a dover provvedere all’amministrazione dei beni della famiglia. Non essendo possibile per una donna, che doveva badare a quattro figli e ai lavori agricoli, recarsi a vivere per parte dell’anno in Istria per seguire l’andamento di quelle terre le affidò alle cure di un fattore e agente che per lunghi anni fu il carnico Pietro Rupil, il quale si riferiva al Lupieri come suo padrone e principale.
Divenuto maggiorenne il figlio Valentino continuò a valersi della collaborazione del fattore o amministratore pur recandosi ogni anno a Sanvincenti, ma non più per soggiorni lunghi come i suoi antenati.
Fu quindi il Settecento un secolo che vide una stretta frequentazione da parte della famiglia Lupieri nell’Istria, ma non fu solo questa famiglia ad avere degli interessi in quella zona.
Assieme ai Lupieri viaggiavano avanti e indietro tra Carnia e Istria gli Spinotti e i Micoli di Muina, i Rovis di Agrons, i De Caneva di Liariis,
A queste famiglie, che avevano in Istria dei possedimenti e casa d’abitazione, si aggiunse una corrente d’emigrazione, per lo più stagionale, di loro compaesani che svolgevano attività artigianali: sarti, tessitori, o personale di servizio presso i conterranei più ricchi. Dall’Istria arciducale ovvero da Gimino i Lupieri si sono spostati verso la vicina Sanvincenti, feudo privato dei Grimani, e territorio della Repubblica di San Marco. Molto probabilmente come molti altri istriani dell’epoca preferivano la sudditanza veneta a quella degli Asburgo a causa di molteplici fattori, primo fra tutti il maggiore spa- zio imprenditoriale e il minor peso fiscale.
Dunque il motivo dello spostamento in questo borgo del centro dell’Istria era la possibilità di investire nella compravendita di terreni agricoli, nel commercio e nella coltivazione del tabacco che si era diffusa in quella zona. Nel corso del Settecento il commercio del tabacco era diventato una delle attività dei mercanti carnici specialmente in Germania nella zona della Svevia. Originariamente il tabacco veniva usato a fini medici e terapeutici. La Repubblica di Venezia era tra i primi governi a intervenire direttamente fin dal 1702, con l’emissione di vari decreti senatoriali che vietarono la libera semina del tabacco, perché dannosa alla pubblica rendita. La Serenissima determinò quindi le superfici da coltivare e i prezzi dei prodotti obbligando i coltivatori a vendere il tabacco solo a persone autorizzate dal governo. Sanvincenti all’epoca era un centro molto importante di questa parte dell’Istria, adatto per le attività artigianali e commerciali della vasta area di cui rappresentava il punto di riferimento. Il territorio era un feudo della famiglia veneziana dei Grimani i quali mandavano in loco un capitano per ammistrare le proprietà e la giustizia. Possedevano il castello, alcuni caseggiati attorno ad esso, dove risiedeva qualche loro dipendente, e due stanzie che affittavano fuori dal paese, Stanzia Grimani e la Stanzia del Ill.mo Capitano (diventato Delegato durante il dominio francese), e i due boschi più importanti del comune, Presica e Prostimo. Per il resto i sudditi del Castello erano proprietari assoluti dei loro beni e dunque potevano comprare e vendere a loro piacimento. Qui si schiudeva uno spiraglio concreto anche all’investimento dei carnici i quali in questo modo si aprivano la strada per la loro presenza attiva, dinamica e renumerativa in queste comunità.
I Lupieri erano una delle famiglie più facoltose del Canale di Gorto e di certo non gli mancavano i liquidi per un’impresa di questo tipo, anche se, con molta probabilità, una parte del denaro era stata presa sotto forma di livello dalla locale confraternità di San Valentino del villaggio di Luint: una fraglia economicamente forte che aveva disponibilità di denaro.
Il commercio del legname e i buoni affari fatti con il commercio e con l’arte della tessitura prima a Gimino e poi a Sanvincenti avevano contribuito all’allargamento delle proprietà e degli interessi in Istria e in Carnia. Lo conferma lo stesso Giobatta Lupieri parlando della situazione economica della famiglia, dei beni posseduti in Istria e dei crediti che la famiglia aveva contratto. Una delle conseguenze principali del vasto e durevole movimento migratorio dei carnici fu l’ampio ricorso al credito commerciale per il finanziamento delle attività delle singole famiglie o case. Siccome lo strumento creditizio preferito era il livello, si veniva a creare un legame inscindibile tra emigrazione, credito e proprietà terriera. I livellarii erano sia persone fisiche sia enti; tra questi ultimi chiese e confraternite svolgevano un ruolo di primo piano, soprattutto, come si vedrà, in relazione al piccolo e medio credito. La famiglia Lupieri era imparentata con i Micoli Crosilla Toscano di Mione e con i Rovis di Agrons con i quali ebbero tutto un intreccio di rapporti di parentela e amicizia. Il dottor Giobatta Lupieri, definito dal testatore il mio parente e ottimo amico, era stato l’esecutore testamentario di Giovanni Battista di Francesco Rovis nel 1813 e con i Rovis di Gimino avevano stipulato altri due contratti matrimoniali. Infatti, nel settembre del 1814 nella casa dei Rovis ad Agrons erano stato stipulato il contratto nuziale tra il fratello di Giobatta Matteo e la figlia di Giovanni Battista Rovis Giacomina. Nel contratto era stata pattuita una lauta dote e controdote pagabile in parte in denaro e in parte in beni immobili. Il contratto nuziale Lupieri-Rovis di Agrons è sicuramente uno dei pochi casi documentabili di accordi matrimoniali stipulati tra le montagne della Carnia riguardanti matrimoni vissuti e consumati per intero in terra d’Istria. I luoghi di provenienza della montagna friulana era la sede prediletta e quasi obbligatoria dove stabilire le strategie matrimoniali e patrimoniali di queste famiglie appartenenti alla cosiddetta borghesia alpina. La madre di Giobatta era Santa Micoli (1753-1832) figlia di Floreano e Catterina Rovis. Il padre di lei, Floreano al momento del matrimonio le aveva elargito come dote, come d’altronde alle altre otto figlie femmine, una cospicua cifra di 300 ducati. Valentino Lupieri (1741-1812), che aveva continuato gli affari di famiglia dopo che il padre aveva introdotto la presenza della famiglia in Istria, aveva preso la residenza nel castello di Sanvincenti per poter liberamente svolgere i propri affari e perché lo richiedevano anche le regole statutarie della comunità che vietavano il commercio a colloro che non stavano loco et foco a Sanvincenti. Era una misura che avevano preso molte località istriane per ovviare alla presenza di contrabbandieri e ambulanti vaganti non molto affidabili. Nel 1766 ebbe un contenzioso con Pietro Fabris e i suoi fratelli e uno con Vido Razzan. Nel 1774 con Giure Iscra e nel 1778 contro un gruppo di contadini composto dai fratelli Salambat e Antonaz. Questi contenziosi riguardavano per la maggior parte contratti di soccida che per il Lupieri erano numerosi. La famiglia aveva acquistato due case in paese adiacenti alla piazza che sono indicate con il numero civico 3 e 5 nel Catasto franceschino del 1820 e che per importanza vengono subito dopo il castello dei Grimani e la loggia pubblica, pur non trovandosi molto vicino a questi due edifici. Qui si trovava la bottega da tessitore e il negozio di merci varie in primo luogo si commerciava con il vino. In patria nelle montagne della Carnia si mandava il vino locale e l’olio d’oliva insieme ad altri prodotti dell’economia locale addatti per lo scambio commerciale.
La casa Lupieri aveva raggiunto uno status sociale di prima importanza in paese. Come possidenti terrieri in paese erano sicuramente in prima fila. Soltanto tra il 1787 e il 1789 Valentino Lupieri aveva stipulato 16 contratti di compravendita. La proprietà più importante era la stanzia di circa 10 ettari che si trovava a due chilometri dal paese con la casa colonica, la cantina e gli ovili per 150 animali lanuti. Giobatta Lupieri dice che le propietà della famiglia non erano ingenti:
„Nell’autunno 1793 passai col Padre, per la prima volta, a Sanvincenti nell’Istria, per assistere al raccolto dell’uva prodotta dalle poche nostre terre colà possedute. Non corsero due mesi che per effetto di qualche disordine dietetico e di traspirazione sbilanciata per disaggi atmosferici sofferti…io fui colpito da una febbre gastrico-reumatico-nervosa che mi spinse a grave pericolo. Reso alla patria io non poteva non rimettermi“.
A Sanvincenti i Lupieri avevano dei veri e propri dipendenti e procuratori provenienti dalla Carnia Giacomo Gortan e il mistro Pietro di Simone Rupil il quale si era trasferito definitivamente in Istria insieme al fratello Sebastiano e più tardi svolgerà da solo le proprie attività. Anche a Luint in Carnia avevano dei coloni come il mistro Valentino Polzotto di Comeligo menzionato come testimone in un documento del 1769 legato alla Confraternità di San Rocco di Cella ed Agrons.
Valentino Lupieri era un padre autoritario un pò come in tutte le famiglie carniche anche lui gestiva i rapporti famigliari in modo patriarcale. Dei tre fratelli Lupieri Gio- batta era quello che meno si adattava a questo tipo di imposizioni e per tutta la sua vita si terrà lontano dagli affari della famiglia in Istria. Non amava l’Istria e preferiva le montagne natie della Carnia con le quali si era da sempre identificato. I fratelli Valentino e Matteo invece avranno la loro residenza fissa a Sanvincenti dove avevano messo su famiglia e dove gestivano gli affari di famiglia ereditati dal padre. Nel 1797 Valentino aveva imposto al figlio di seguirlo in Istria ma questi si era rifiutato in vista degli studi che voleva intraprendere a Padova. La determinazione del padre si evince benissimo da un fatto accaduto durante il viaggio verso l’Istria:
”Non volli disgustarlo ma gli ricordai che ai primi di novembre conveniva che io fossi a Padova. Mi rispose che anche dall’Istria si poteva andare in quella città…pervenuti a Udine mi intimò in tono grave e assoluto di rendermi in senno della famiglia. Mi ostinai in ultimo, protestai di non volerlo seguire e lo chiamai responsabile in faccia del cielo e della terra di tutte le conseguenze della sua in- discretezza…egli monto sulla carretta postale e mi lasciò fuori dalla porta di Gemona, solo, senza denaro e senza appoggio in un conflitto di passioni da rendermi infelice, frenetico, disperato. Mi volsi indietro risoluto di rendermi nell’Istria, onde col vino prodotto dall’autunnale raccolto, procacciarmi denaro e appigliarmi in seguito al partito più opportuno mi avesse presentato la sorte!“
Più tardi Giobatta si era laureato a Padova in Medicina e chirurgia e sul diploma dell’ateneo patavino c’era scritto che Johanes Baptista Lupieri era figlio di Valentini Istriensis. Dunque una conferma della reale residenza dei Lupieri in terra d’Istria. La scelta di partire e stabilirsi in Istria poteva creare delle vere e proprie fratture all’interno delle famiglie carniche e lo vediamo da questo caso e dal caso di Maria Rovis nata Michieli abbandonata dai figli che avevano seguito il padre Francesco a Gimino. Giovanni Antonio Micoli invece restò celibe e la madre si trasferì con lui a Pinguente per la gestione degli affari di famiglia. I legami di famiglia difficilmente potevano essere spezzati perché non solo rappresentavano una consuetudine secolare ma ne dipendevano molto spesso la sorti della stessa. La gestione famigliare della casa da parte dei consorti non ammetteva iniziative isolate e un eventuale sfaldamento dei legami famigliari con la divisione dei beni poteva significare l’impoverimento e la perdita delle capacità economiche precedenti. Questo era stato anche il caso della rovina economica della casa Lupieri che era iniziata con la morte di Valentino nel 1812. Giobatta Lupieri scrive: “In lui periva molto la famiglia Lupieri, non perché fosse uomo di grande ingegno, ma per- ché era onesto e onorato capo della medesima e perché lasciava delle guarentigie, degli affari indigesti e degli incagli non lievi ai suoi eredi“.
Giovan Battista aveva intrapreso la carriera di medico restando sempre nel villaggio di Luint e non partecipava direttamente alla gestione degli affari di famiglia perché non era d’accordo con il metodo dei parenti mentre i fratelli Valentino e Matteo risiedevano a Sanvincenti. I due si erano ammogliati con ragazze carniche, Giacomina Rovis di Gimino con Matteo e Anna Mirai con Valentino. Giovanni Battista non aveva una grande opinione dei fratelli: “Valentino mio fratello che lo assisteva né avea l’avvedutezza necessaria, né l’attitudine conveniente per assumerne l’amministrazione e non seppe egli d’altronde mai conoscere gli elementi di retta e decorosa economia…Matteo era inesperto, distratto, volubile, alquanto intemperante“. In realtà, pur non gestendo al meglio le proprietà della famiglia in Istria, Valentino Lupieri era tra i notabili del paese ed era stato anche il podestà di Sanvincenti durante la stesura del Catasto franceschino nel 1824. Nel testamento il padre Valentino aveva preferito i due figli che lo avevano seguito in Istria, lasciando loro una cifra in denaro più alta, fatto che a Giobatta non era andato per niente bene. Secondo Giobatta la famiglia Lupieri era più ricca d’opinione che di sostanze e dopo la morte del padre il patrimonio di- viso in sette parti insieme al consistente legato in usufrutto della madre, si era inevitabilmente deteriorato. Nel 1821 a Sanvincenti morì il fratello Matteo lasciando una bambina piccola Regina nata nel 1815. Giobatta era stato nominato come suo tutore e Regina fu l’unica erede dei Lupieri in Istria siccome Valentino non ebbe figli. Poiché Regina era rimasta orfana di entrambi i genitori Giobatta, in qualità di tutore, aveva nominato come suo procuratore Giorgio Galante da Luincis, il quale dopo questo in- carico restò a vivere in paese. La pupilla Regina era stata allevata dalla zia Marianna in Carnia per ritornare poi in Istria come sposa a Gimino. Nel 1847 all’atto della nascita del figlio di Giorgio e Catterina Vernier, Fancesco Pietro, il padrino e la madrina erano stati il capellano Antonio Rovis e Regina Lupieri entrambi da Gimino. Usando le consuetudinarie strategie di mantenimento del potere economico, i parenti si erano dati da fare per trovare marito alla nezza di Giobatta Lupieri. Con lo sposalizio di Regina con un membro della famiglia Rovis ritornava a questi una parte della dote che aveva portato sua madre Giacomina, anche lei proveniente dalla famiglia di Gimino. Nel 1835 Regina si era sposata nella chiesa di San Michele a Gimino, davanti al capellano Antonio Rovis, lo zio di Regina, e ai testimoni Giovanni Pietro Misdariis e Pietro Millotich. Siccome era minorenne, da Tolmezzo era arrivato per procura il nullaosta. Il matrimonio non ebbe una prole fortunata: i figli Antonio (1835-1839), Gia- comina (1839-1851) e Giovanni (1843-1844) morironò giovanissimi, mentre so- pravvisse soltanto Antonio, nato nel 1840. Il marito Giacomo Rovis (1794-1855) di vent’anni più vecchio della moglie, morì prima di lei, che si risposò con Luigi Giorgis di San Pietro in Selve nel 1856. Dal secondo matrimonio Regina ebbe una figlia, Albina, con la quale si estinse il ramo dei Lupieri in Istria. Nell’archivio dei Lupieri, nell’avita casa di famiglia nel villaggio di Luint, viene cusodito un grosso fascicolo su Regina con la precisa documentazione riguardante la separazione dei beni tra i possidementi istriani e carnici della famiglia Lupieri. Il suo necrologio e i documenti inerenti al decesso in terra d’Istria vennero inseriti nell’archivio di famiglia. Come per la casa Rovis anche per i Lupieri la separazione delle proprietà tra l’Istria e la Carnia segna la definitiva divisione delle famiglie e la fine della doppia residenza durata per alcuni secoli.
Gli affari della famiglia in Istria non andavano molto bene e nel 1827 Lupieri scriveva:
“Mi volsi in questa occasione ad esaminare lo stato delle nostre terre nell’Istria. Le trovai deteriorate ed alcune in istato di vero abbandono. Trovai le soccide sommamente diminuite ed i pochi capitali e mobili quasi distrutti…il maggiore suo difetto ( del fratello Valentino nda) è quello di essere troppo buono e di essere troppo dedito al sonno e troppo trascurato negli interessi che riguardano la domestica e l’agricola economia“.
Più volte si era lamentato della condotta economica degli affari di famiglia da parte del fratello Valentino e cercò di convincerlo a ritornare in Carnia, perché era di salute cagionevole. In buona fede voleva aiutare anche economicamente il fratello il quale però non accettò con disinvoltura la sua proposta. Giobatta non amava particolarmente l’Istria e al momento giusto approfittò per scambiare i beni della nipote in Carnia con quelli in Istria, ritenuti giustamente più redditizi. Mantenere le proprietà in Istria non era più nelle sue capacità economiche ed eventuali investimenti potevano portare alla rovina della famiglia. Nel 1848 era morto a Sanvincenti Valentino di reuma al petto, non lasciando eredi. Nel fratempo Giobatta aveva messo su famiglia vedendo che la famiglia stava restando senza eredi; ebbe due figli, Giulio Cesare Valentino morto volontario nel 1849 ed Eugenia sposata poi con Luigi Magrini. Economicamente a causa di investimenti sbagliati la famiglia aveva perso le sostanze di un tempo. Ma grazie all’accuratezza del dottor Lupieri l’archivio privato della famiglia, custodito nell’avita casa nel villaggio di Luint, è rimasto una fonte di prim’ordine per la storia della Carnia ed anche per quella della non lontana Istria
Durante uno dei tanti soggiorni in Istria Giobatta Lupieri nel 1809 durante il dominio francese aveva ucciso un uomo per legittima difesa. Si trattava di un brigante, che come tanti infestava le contrade istriane in un periodo caotico, come lo era stato il periodo della presenza delle truppe napoleoniche in Istria. I cittadini allertati di Sanvincenti, guidati dal podestà, il dottor Giobatta Fiorencis si erano armati per il pericolo di un saccheggio che era stato segnalato in precedenza. Durante una scaramuccia per le vie del paese Giobatta Lupieri sparò per autodifesa uccidendo uno dei briganti del quale non sappiamo il nome. Così aveva scritto il sostituto del podestà Marcello Marani: “Allora il signor Giobatta dottor Lupieri che gli stava di fronte, lo prevenne, dirigendogli una palla al petto…e morì di fatto tre giorni dopo, avendo prima con pubblica confessione fatto molte dichiarazioni”.
Grazie alla testimonianza dei compaesani e all’immediato rapporto al commissario per l’Istria Calafatti, Lupieri era stato assolto per il suo gesto di corraggio e determinazione. Giovanni Battista Lupieri aveva esercitato la professione di medico dal 1801 al 1852: scrive che “era per necessità chiamato ovunque: e sono due o tre villaggi soli nella Carnia, che io nella qualità di medico o chirurgo non abbia visitato”. Ci dice anche che “dopo l’anno 1852 io esercitai pochissimo la professione, un poco per stanchezza, un poco per impotenza, un poco per convenienza verso i Medici condotti che vennero ovunque istituiti”. Come medico ha costantemente denunciato e deplorato le precarie condizioni igienico- sanitarie in cui versava la popolazione, in particolare quella infantile, soggetta ad un altissimo tasso di mortalità, tanto che la morte era considerata un fenomeno naturale, ineluttabile, vissuto quasi con indifferenza se non addirittura come una grazia. “Se il neonato muore dopo il battesimo, si ritiene che ‘l’angioletto’ sarà di grande aiuto e protezione alla famiglia ed ai santoli, specie se è il primo nato, per cui la sua morte non si annuncia con suoni lugubri, ma con allegri ed argentini suoni della campana più piccola. Queste convinzioni si riscontravano a tutti i livelli sociali: dal borghese al più umile”.
Il medico Lupieri ha cercato di combattere questa concezione fatalistica svolgendo una costante opera pedagogica per diffondere la conoscenza delle più elementari norme igienico sanitarie che aiutassero a prevenire le tante malattie causate dalle misere condizioni di vita in cui si dibatteva la stragrande maggioranza della popolazione. Malattie che la medicina del tempo non era in grado di combattere non disponendo di terapie mediche veramente efficaci. Per quanto riguarda le carenze alimentari purtroppo l’opera filantropica del medico si scontrava con la cruda e generalizzata realtà della miseria e ben poco poteva incidere.
Comunque Lupieri ha dato un valido contributo alla lotta contro la mortalità infantile introducendo per primo in Carnia, nel 1801, la vaccinazione antivaiolosa e già nella metà dell’Ottocento la campagna vaccinatoria aveva dato esiti tali per cui poteva affermare che: “Una volta il vajuolo rapiva una quantità di fanciulli, che ora salvansi col vaccino ”63. All’arrrivo del dottor Lupieri suonavano le campane per avvertire la popolazione di portare i figli a vaccinarsi. Come uomo di lettere Lupieri scrisse vari libri e mantenne corrispondenze epistolari con i più importanti personaggi della Carnia ottocentesca. Nel corso della sua vita aveva ricoperto anche numerose cariche pubbliche in Carnia. Dal ritratto con la sua immagine si evince con chiarezza il modo nel quale si vedeva e voleva essere visto; come un borghese e uomo di lettere in primo luogo. È stato definito come una personalità per molti versi eccezionalmente aperto verso le novità scientifiche, ma anche conservatore perché credeva in un futuro senza troppe scosse: si potrebbe definire un liberal moderato, un borghese di montagna che non si era fatto limitare dall’isolamento geografico del villaggio d’origine, dal quale si staccava soltanto nei numerosi viaggi che aveva fatto nel corso della sua vita. Nella sua lunga esistenza, 97 anni, era stato il testimone dei più importanti avvenimenti che avevano contrassegnato la storia della Carnia in questo periodo.
I Micoli Toscano a Pinguente
Micoli Toscano è il cognome con cui viene comunemente identificata una famiglia carnica, che in realtà ha modificato più volte la propria denominazione ed ha le sue origini nei Toscano emigrati in Friuli dall’omonima regione appenninica. Lorenzo Toschiani nel 1530 abitava a Luint, per trasferirsi più tardi nel villaggio di Mione. Erano proprietari di alcune segherie sul Degano e si occupavano di commercio di lename. Con il passare del tempo crebbe anche la loro proprietà fondiaria. Verso il 1680, in mancanza di eredi in linea maschile, Elena Toscano sposò Zuanne Crosilla di Luincis, appartenente ad un’importante famiglia di gismani della Carnia. L’eredità dei Toscano viene raccolta da questo ramo dei Crosilla, mentre l’intricata storia della famiglia continua nel 1686, quando Zuanne e Bartolomeo Crosilla vengono uccisi a Mione da Biagio Biral. La figlia di Elena Catterina sposa nel 1708 Giovanni Micoli di Muina. Anche la famiglia Micoli di Muina viveva in condizioni agiate, vantando numerosi possedimenti tanto nel paese natale quanto nell’Istria.
Il fratello Francesco Crosilla Toscano, pur avendo una prole numerosa, non ebbe discendenti maschi. Il terzo fratello era don Giobatta, singolare figura di sacerdote- mercante morto nel 1798. In mancanza di eredi maschi la scelta cadde su Giovanni q. Floreano Micoli, di Muina, che già da alcuni anni assisteva don Giobatta nella conduzione dell’azienda familiare. Egli era nipote di quel Giovanni Micoli che nel 1708 aveva sposato Caterina Crosilla Toscano e figlio del Floreano Micoli. Le due famiglie possedevano in comproprietà la segheria chiamata Aplis. Don Giobatta Crosilla Toscano era stato il padrino di Giobatta Lupieri nel 1776. La madre del medico di Luint Santa Micoli era figlia della sorella del sacerdote. Giobatta Crosilla Toscano aveva scelto Giovanni quondam Floreano Micoli, suo nipote, come proprio erede, lasciandogli una cospicua eredità. Dunque già in patria i membri delle più influenti famiglie carniche della Val di Gorto erano legati da una fitta rete di rapporti di parentela e di interessi economici. Il nonno di Giovanni, dello stesso nome, alla fine del Seicento aveva iniziato la presenza dei Micoli in Istria; a Pinguente. Giovanni Micoli era un tessitore e sarto e commerciava nella sua bottega di Pinguente di mezze lane, sete e altri tessuti con i principali empori istriani dell’epoca. Inoltre aveva investito molto denaro nella compravendita di fondi agricoli a Caroiba, Rozzo e Montona. I vari possedimenti dei Micoli si estendevano fino a San Vitale, con alcuni fondi agricoli, e a Santa Domenica di Visinada dove possedevano una casa. Le proprietà venivano affitate con contratti a colonia o soccida e portavano un notevole guadagno, cosi come l’attività di piccolo prestito di denaro ad usura. Giovanni Micoli gestiva l’azienda di famiglia da Pinguente, situata a metà strada tra le varie località istriane dove aveva i propri possedimenti. Pinguente, pur non essendo molto grande, era l’antica sede del Capitano di Raspo una delle cariche amministrative più importanti del governo veneziano in Istria.
Nella seconda metà del Settecento il nipote Giovanni Antonio risiedeva insieme alla madre a Pinguente, mentre il fratello Giovanni, quello che aveva raccolto l’eredità dello zio Giobatta Crosilla Toscano, era rimasto a Mione e svolgeva l’attività di notaio e numerose altre cariche pubbliche. Giovanni Antonio descrive cosi la vita quotidiana dei notabili istriani dell’epoca:
“Quivi in Pinguente tutti mangiano carne, ma non facciamo come hanno fatti lì nostri vecchi, qualli non mangiavano carne, ma bensì latticini, e si ritroviamo star bene… Le mucche anche per la carne, e non solo per ricavarne latte: una novità non di poco conto rispetto alla tipica alimentazione carnica a base di granturco, patate, fagioli, rape e ortaggi“.
Una descrizione cosi la dice lunga sulle difficoltà del quotidiano nelle quali si trovavano i rappresentanti di tutti i ceti istriani di quell’epoca. Un’economia povera e di sussistenza, che non riusciva a produrre nessun sovvrapiù che potesse essere venduto a mercati esterni, tranne il vino. Nelle sue lettere Giovanni Micoli descrive anche il viaggio a cavallo dalla Carnia all’Istria, che di solito durava quattro giorni. In una lettera al fratello, del 29 agosto 1793 scrive cosi:
“Fratello e compare amatissimo, partiti di Cargna la prima sera si pernottò in Ospitalle e la mattina si parti nell’alba, e si arivò in Udine alle ore 15 circa, si parti di Udine alle ore 22, e si pernottò la seconda sera in Percotto. La mattina si parti e si fermò in Ronchi, si parti da Ronchi alle ore 22, e si pernottò in S. Croce, e la mattina si parti alle ore 14 siamo arrivatti in Trieste, e si hà pransatto dal Signor Rovis, e alle ore 22 ha montatto in carozza ed è arivatta alle ore 23, ed io sono venutto prima, e questa sera siamo dal signor Madonizza il quale vi salutta. La madre e un pocco stanca ma non quanto credeva e dimani partiremo per Pinguente e subito arivatto vi scriverò. La cavalla mi ha fatto diventar matto; ma alla fine era sodata“.
Anche Giobatta Lupieri descrive le difficoltà del viaggio nel marzo del 1842: “ll viaggio non fu il più prospero, perché accompagnato da pioggia, vento, gragnuola ed essendo pure caduta molta neve al monte, ebbesi un freddo tale nell’Istria che eguale non provai nel cuore del verno fra le montagne della Carnia“.
Nel 1810 malatto gravemente di gotta Giovanni Antonio tornò definitivamente a Mione dove muore nel 1812. Non avendo figli lasciò tutti i suoi averi ai quattro figli del fratello il notaio Giovanni. La proprietà di Pinguente fu venduta nel 1825 al carnico Giobatta Zanier di Mione. Il tessitore Zanier detto “Zuel“ nato nel 1790 si era accasato in Istria insieme alla moglie Maria De Franceschi.
La famiglia Micoli Toscano fuori dalla Carnia aveva possedimenti in Friuli e a Castions di Zoppola vicino a Pordenone. A Mione avevano ristrutturato la vecchia casa, costruendo l’attuale palazzo di famiglia. Forse dietro c’era la rivalità con i cugini Lupieri di Luint che all’inizio dell’Ottocento avevano costruito una casa bella e importante. Per non essere da meno e per ribadire il proprio primato i Micoli Toscano costruirono l’imponente edifico chiamato poi la Casa delle cento finestre. L’erezione di questa dimora segna sicuramente l’apice della potenza della famiglia Micoli Toscano; e i colori della casa, rosso, bianco e verde esprimono i sentimenti antiaustriaci della famiglia.
Nel Settecento avere possedimenti in Istria e investire con l’obiettivo di fare buoni affari era una prerogativa di queste famiglie appartenenti alla borghesia carnica, un secolo dopo la situazione era cambiata e la loro presenza in Istria era indebolita o quasi scomparsa a causa di una diversa congiuntura economica che evidentemente non favoriva più operazioni di questo tipo.
Erano molti i carnici che sceglievano l’Istria per emigrare stagionalmente o in modo definitivo, cum loco et foco, molti sono rimasti in Istria mentre altri hanno fatto ritorno in patria o hanno scelto altri lidi migliori per le loro attività. A livello linguistico e nazionale, nell’Ottocento molti carnici si erano schierati in modo differenziato. Seguendo percorsi di vita diversi, alcuni tra loro si erano assimilati nelle comunità a maggioranza croata e slovena mentre altri, vivendo in comunità linguistiche italiane, ave- vano mantenuto la lingua d’uso variando il dialetto friulano con quello istroveneto parlato nella maggior parte dell’Istria. L’identità nazionale in queste regioni di confine era da sempre particolare e peculiare. Nella seconda metà dell’Ottocento persone con lo stesso cognome e della stessa origine sceglieranno strade politiche e nazionali completamente diverse; Inocent Fabris, un mercante e possidente del borgo di Lindaro, era diventato nel 1887 il primo podestà croato di Pisino mentre l’avvocato Giuseppe Basi- lisco Fabris (1837-1913) di Sanvincenti era un’irredentista italiano che era diventato celebre per il suo cambio di fronte e il tradimento di Guglielmo Oberdan che portò al suo arresto.
Vittorio Vidali
(1900-1983) nato a Muggia, però da una famiglia carnica di Verteneglio, fu uno dei principali protagonisti della storia della sinistra italiana nel Novecento. Fu accusato di essere tra gli esecutori della condanna a morte contro Lev Trockij in Messico nel 1942 e fu più tardi uno dei leader del PCI e della corrente politica antijugoslava e antititoista. Vladimir Gortan (1904-1929) di Vermo vicino a Pisino era stato condannato a morte dalle autorità fasciste da parte del Tribunale speciale per la difesa dello stato come elemento sovversivo anti italiano. Vladimir divenne il simbolo della lotta antifascista del popolo croato dell’Istria contro le angherie e la denazionalizzazione forzata operata in tutta la Venezia Giulia durante il Ventennio fascista. Dunque destini e percorsi diversi per i figli e i discendenti dei montanari carnici emigrati in Istria. Quello che influì di più su queste scelte di campo fu sicuramente il contesto nel quale questi carnici si erano inseriti arrivando in Istria e il loro status sociale. In un con- testo maggioritario croato o sloveno l’assimilazione avveniva nel giro di una generazione, in contesti prevalentemente italiani invece questo fenomeno non era presente. Nelle realtà linguisticamente miste74 era diffuso il bilinguismo, che era necessario per gli affari e per i vari interessi economici che erano alla base delle loro attività. Un rapporto di apertura, indubbiamente, che però si combinava con sistemi e consuetudini di mantenimento della propria identità e del proprio status economico. Basta pensare alle strategie matrimoniali chiuse, che mettevano in atto gran parte dei carnici presenti in Istria. Per i membri della cosiddetta borghesia carnica, l’esperienza istriana era finita nell’Ottocento e la loro storia famigliare era continuata in Carnia. I loro interessi economici e la va- lenza economica delle varie famiglie consentiva appunto questa doppia residenza e la gestione delle aziende di famiglia in modo parallelo tra le due regioni. Per coloro che non avevano lo stesso status sociale le strategie di adattamento erano diverse e l’obiettivo era quello di integrarsi il primo possibile e al meglio nelle nuove comunità di adozione, e di crearsi una base economica partendo, nella maggior parte dei casi, dall’attività artigianale e in special modo dalle attività legate alla filiera del tessile.
I mistri cargnelli residenti nei piccoli villaggi dell’interno dell’Istria a maggioranza croata spesso conoscevano anche il dialetto ciakavo croato usato dalle popolazioni locali. Questo idioma era necessario per poter svolgere le loro attività, che si svolgevano in modo diretto con le popolazioni locali. Questo fu il caso di Giovanni Battista Sopravita di Carnizza sposato con Maria Grisanich, figlia dell’oste del paese. Il loro giardino detto “Orto dei Cargnelli“ era stato il luogo dove si erano fermati nell’estate del 1776 i mem- bri di una delle tante bande di ladri presenti sul territorio istriano durante l’Età moderna. Sia Sopravita che altri carnici stagionali e non residenti in quest’area erano stati coinvolti dalle angherie e dai soprusi di questi malviventi. Durante il processo avevano testimoniato sui fatti in questione, il muratore sessantenne Antonio da Monte, che stava lavorando sulla chiesa parrocchiale di Carnizza, lo stramazzer ambulante Francesco Micoli, che era stato quasi malmenato da questi balordi e il negoziante Zuanne Crosilla, che gli aveva venduto della polvere da sparo. Tra i banditi provenienti da varie località, come Canfanaro, Barbana o Castelnuovo, c’era anche un carnico di Canfanaro, Vido Valle. Nelle carte del processo si legge che Vido Valle aveva chiesto ad un abitante di Carnizza come stava suo zio l’arciprete del paese; e tra le varie testiomonianze c’era anche quella di aver visto “un uomo vestito all’usanza delli cargnelli…con la camisola rossa“. Il banditismo era una piaga continua in alcune parti dell’Istria e si suppone che alcuni tratti di questo tipo di comportamento siano il retaggio della cultura seminomade pastorale montanara, che gli immigrati avevano portato in Istria dalla loro patria d’origine. Nel villaggio di Monspinoso colonizzato all’inizio del XVII secolo da nuovi abitanti dall’Albania veneta, albanesi e montenegrini, ancora verso la fine del Settecento operava una banda di gente del paese, appartenente in gran parte alle famiglie albanesi oriunde dalla zona di Scutari. Tra gli obiettivi dei briganti c’erano, insieme al pievano, gli artigiani carnici del paese, come Zuanne Sellaro detto Toffolo, e Giacomo Fedele o Trissoldo, che era stato malmenato dai briganti per non averli salutati per primo. Le loro deposizioni avevano contribuito durante il processo a Capodistria alla condanna del gruppo. I carnici, al contrario dei locali, non si facevano scrupoli per denunciare e testimoniare a carico della banda degli albanesi.
Gli Spinotti di Muina a Grisignana
Un’altra delle famiglie più importanti del Canale di Gorto gli Spinotti, fu presente per un lungo periodo di tempo in Istria a dimostrazione della tendenza di queste famiglie ad emigrare e possedere beni immobili e proprietà in terra d’Istria. Il loro villaggio d’origine, Muina, deriva il nome dal friulano muini (latino monacus) che indica la carica di sacrestano. In paese viveva la famiglia Micoli, legata ad attività artiginali a Pinguente dove aveva numerosi possedimenti. Numerosi Corva (anch’essi di Muina) erano sparsi lungo tutta la penisola istriana, anche in varie località molto piccole Gli Spinotti di Muina sono l’unica casata carnica che ebbe un riconoscimento nobiliare in virtù di antichi privilegi legati al titolo feudale di gismani. Erano iscritti nell’Aureo libro dei veri titolati della Repubblica di Venezia dal 178979. Grazie a queste prerogative gli Spinotti di Grisignana poterono allargare il raggio delle loro strategie sociali e matrimoniali anche all’esiguo patriziato locale istriano, dimostrando in questo modo il prestigio locale che la famiglia godeva sia nella patria d’origine che in Istria. Nel 1783 nella nuova casa dei conti Rigo, situata tra i loro possedimenti a ridosso del mare nella contrada di Carpignano a Cittanova, il Nobil Huomo Giobatta Spinotti di Ulderico da Grisignana e i suoi fratelli avevano stipulato il contratto matrimoniale con i tre fratelli Rigo, Aurelio, Carlo e Domenico. La contessa Maria Teresa Rigo figlia di Domenico doveva andare in sposa a Giovanni Battista Antonio Spinotti. Alla dote di 3500 ducati e alla controdote avevano partecipato con il loro apporto materiale tutti i membri delle rispettive famiglie, siglando in pratica una forte alleanza famigliare pregna di obblighi e impegni finanziari. La cifra era importante: basti pensare che il titolo nobiliare lo avevano aquistato per 10 000 ducati nel 1743. Aurelio Rigo (1672-1750) era stato il personaggio più rappresentativo della famiglia, il quale con l’ingegno dimostrato nei suoi affari e con l’alleanza famigliare con i conti Caldana di Pirano era riuscito a collocare la famiglia nella cerchia delle elité più importanti dell’Istria. Il patrimonio della famiglia aveva subito forti deterioramenti a causa dei molti figli da sistemare, delle divisioni dotali, di liti dispendiose, cacce, viaggi e altro. Soggiornavano molto spesso nella loro casa di Verteneglio a causa delle note difficoltà climatiche e igienico-sanitarie di Cittanova.
Giovanni Battista Spinotti, quondam Odorico, insieme ai suoi fratelli e consorti Carlo e Matteo, era l’uomo più ricco di Grisignana all’inizio XIX secolo. La famiglia era arrivata dal Canale di Gorto a Grisignana nel 168181, quando Giobatta Spinotti, abitante nuovo venuto dalla Carnia, aveva supplicato il Capitano di Capodistria di assegnargli in concessione due casali attigui al Palazzo pretorio, ora distrutti e pieni di immondizie, e aveva chiesto che la concessione fosse ereditaria e perpetua. I due casali, tra il Palazzo pretorio e la Loggia comunale, composti da quasi una decina di edifici, erano stati ristrutturati dagli Spinotti e nel 1820, nel primo catasto austriaco, erano ancora in loro possesso. Si trattava di un fabbricato ad uso di torchio per olio d’oliva, una stalla con corte per 4 cavalli, una dimora signorile con la cisterna per l’acqua piovana e altre quattro case adiacenti, un intero isolato di case in pratica. Questa proprietà si trovava a ridosso dell’entrata del borgo, sulla via principale che portava alla Chiesa parrocchiale e al Palazzo pretorio, già sede durante il Medioevo del Capitano del Pasenatico; la massima autorità veneziana in terra d’Istria.
A Grisignana possedevano un forno, una decina di stabili che davano in affitto e numerosi fondi agricoli. Inoltre Giobatta Antonio Spinotti possedeva importanti fondi nella vicina Villanova al Quieto, nella località chiamata appunto Spinottia. In questa “stanzia” c’erano una fabbricato economico per cuocere il pane, una fornace dunque, una casa a tre piani e stalle per suini e bovini. La casa era stata costruita nel 1818 ed era l’unica casa a tre piani di tutto il comune censuario di Villanova. La stanzia si trova tra le località di Villanova e Verteneglio ed era sicuramente un investimento consistente da parte dei Spinotti. La stanzia era già da tempo proprietà degli Spinotti, e Giobatta Antonio aveva cercato di dimostrare l’esistenza di un passivo nel periodo 1808-1824 nella gestione della suddetta, per non pagare il dovuto all’erario dello stato asburgico. L’azienda agricola era ben organizzata e produceva mais, grano e vino; la manodopera erano i due servi pagati a salario e i braccianti giornalieri. “Per qualsiasi lavoro delle viti io pago la medesima merenda…la mia situazione isolata e in campagna mi obbliga a dar le cibarie a tutti gli operaj che per tutti i giorni ho sempre calcolato in Lire 2 per giornata di uomo e donna“. Come si evince dagli ordinati e pedanti registri della sua proprietà, impiegava fino ad un centinaio di persone a giornata in varie stagioni dell’anno per diverse mansioni agricole, come la vendemmia, la zappatura, la potatura o la raccolta del grano turco. Il suo resoconto finanziario era stato però messo in dubbio e annullato da parte del commissario dell’estimo. Più tardi nel corso dell’Ottocento la proprietà era stata venduta. Questi Spinotti provenivano dal villaggio di Muina nel Co- mune di Ovaro come la famiglia del possidente di Grisignana Nicolò Corva di Nicolò. Questo ramo dei Corva a Grisignana possedeva un grande complesso di case con portico, una stalla per dieci cavalli e numerosi terreni. Le due famiglie erano legate anche da rapporti di parentela ribaditi di generazione in generazione. Grazie alla concessione iniziale delle autorità veneziane e ai capitali portati dalla Carnia, gli Spinotti erano riusciti ad imporsi come una delle più importanti famiglie dell’area. Il caso di Giobatta Spinotti del 1681 è la dimostrazione della politica veneziana generosa e lungimirante verso tutti coloro che avevano l’intenzione di ripopolare le scarsamente popolate contrade istriane, indifferentemente dalla loro provenienza o dalla loro natione.
La famiglia Spinotti fuori da Grisignana, ad una ventina di chilometri di distanza, nel nucleo storico di Umago, aveva due case di proprietà vicino alla cosiddetta Casa del Vescovo, oggi sede del Museo di Umago. Una delle loro case di Grisignana, il palazzo Spinotti-Morteani alla fine degli anni Novanta è diventata la sede della locale Comunità degli Italiani. Evidentemente gli interessi e le proprietà della famiglia spaziavano su vasta scala per tutto il territorio del buiese.
Il più importante membro di questa famiglia fu Agostino Spinotti, nunzio a Venezia, che ha scritto nel 1740 il libro Gl’antichi, e recenti privilegj, et esenzione della pro- vinzia della Cargna. Il figlio Leonardo Federico, laureato in legge era procuratore fiscale a Venezia e Procuratore generale per la Carnia per tutti i suoi bisogni ed interessi nella dominante. Era stato il padrino per procura di Giobatta Lupieri nel 1776. Il legame e gli interessi dei Lupieri e degli Spinotti sono confermati dal fatto che nella stessa località istriana, quella di Sanvincenti, entrambi avevano comprato dei fondi e fatto importanti investimenti. Infatti, allo stesso modo del Lupieri, Leonardo Spinotti possedeva una stanzia nelle vicinanze del paese, che aveva venduto alla fine del Settecento. Dopo aver dato in affitto al conterraneo Mattio Corva la stanzia per il periodo di cinque anni, un anno dopo la stipula del contratto, nel 1788, dopo la morte dell’affittuale la proprietà fu venduta all’incanto: il rappresentante degli interessi di L.F. Spinotti di Venezia era stato in quell’occasione Giobatta Spinotti di Grisignana. I due fratelli Spinotti, Leonardo e Giobatta, avevano a Sanvincenti numerosi interessi da amministrare, come vari crediti, livelli e affittanze. La stanzia in un primo momento era stata comprata dalla vedova di Mattio, Domenica Barbara Corva, che aveva subaffittato la proprietà, poi nell’Ottocento la proprietà era stata rivenduta. Chi avesse fatto da apripista, a Sanvincenti in Istria, tra Valentino Lupieri e Leonardo Federico Spinotti non lo sappiamo; però è evidente il legame tra le due famiglie in materia di investimenti. Non è da escludere che gli investimenti fossero stati fatti in precedenza, nella prima metà del XVIII secolo, dalla generazione dei padri, Matteo Lupieri e Agostino o Odorico Spinotti, e non è da escludere qualche collegamento con la famiglia Grimani di Venezia, che era proprietaria del feudo di Sanvincenti e di alcune delle stanzie a ridosso del borgo, confinanti ai terreni acquistati dai carnici. Queste erano possessi allodiali del feudatario. Il toponimo Stanzia Spinotti o Spinotto si mantenne fino al 1945, anche se nessun membro di questa famiglia non è mai stato residente in questa località istriana. Gli stretti legami tra Valentino Lupieri e Odorico Spinotti sono confermati da un mandato di procura del dicembre 1766 stipulato a Sanvincenti, con il quale il Lupieri diede l’incarico a Odorico Spinotti di organizzzare e seguire il rifacimento della Veneranda chiesa di San Valentino della Villa di Luint finanziato dal Lupieri e dagli altri confratelli della fraglia medesima.
Come a Momiano o a Gimino, dove i mistri cargnelli erano originari dagli stessi villaggi dei dintorni di Ovaro, anche i carnici a Grisignana erano originari di Muina, o almeno lo erano gli Spinotti e i Corva, le due famiglie che erano indubbiamente i rappresentanti più importanti di questo gruppo in questa località. Ancora alla fine dell’Ottocento i carnici di Grisignana mantenevano la doppia residenza e il forte legame con la patria d’origine; nel 1888 Giobatta Crosilla, di Antonio e Eugenia De Corte, aveva adempito all’obbligo della visita per la leva militare ad Ovaro. Allo stesso modo fece nel 1867 il tessitore Mariano Corva, figlio di Luigi e Marianna Spinotti, mentre suo fratello Paolo Corva nel 1900 si era sposato con Maria Maddalena Cappellari ad Ovaro. Un’altra Marianna Corva nata a Grisignana nel 1859, da Giacomo e Teresa Rotter, sposa Giacomo Albano Fabbro a Majano in Friuli nel 1885.
La storia degli Spinotti di Grisignana si era conclusa a cavallo tra il XIX e il XX secolo con l’estinzione della famiglia in linea maschile. Per più di due secoli avevano contribuito alla storia locale di questo piccolo borgo dell’Istria ex-veneta svolgendo un ruolo centrale all’interno di questa comunità.
CONCLUSIONI
La migrazione secolare dalle montagne del Friuli di una cospicua componente di artigiani legati alla filiera del tessile, diventati poi commercianti e artigiani vari, era stata accompagnata specialmente a partire dal Seicento dal trasferimento stagionale o temporaneo delle famiglie più facoltose e imprenditoriali del Canal di Gorto, area storicamente votata all’emigrazione verso la penisola istriana.
L’emigrazione di queste famiglie, a livello generazionale, trascinava con se un indotto rappresentato dall’investimento di capitali, dal know how artigianale e dalle innovazioni nonché da un certo livello di cultura scritta, legato alla caratteristica di questo gruppo molto dinamico sotto questo punto di vista. Insieme a loro si spostavano come dipendenti di vario genere molti carnici i quali spesso si inserirono nel tessuto sociale istriano restando a vivere cum loco et foco nella penisola.
La peculiarità di questo tipo di emigrazione era la doppia residenza e il legame con la terra d’origine. Un legame affettivo e spirituale, ma anche materiale, perché la consistenza economica di queste famiglie aveva una solida base in Carnia e la sponda istriana serviva prima di tutto come sbocco per ingrandire e stabilizzare il loro giro d’affari, limitato nella patria d’origine. Questa “borghesia di montagna”, una specie di middle class, si era inserita con successo nel tessuto sociale istriano creando una stabile base di potere economico e sociale. A partire dall’Ottocento con il declino dell’artigianato anche il ruolo di questo gruppo sociale si era indebolito per quella parte di essi che non era riuscita ad abbinare il commercio e l’artigianato a redditizi investimenti fondiari. Nel- l’Ottocento, con la rivoluzione industriale in corso a livello europeo, gli artigiani e i mercanti furono i perdenti di questi mutamenti sociali ed economici. I figli in genere rifiutavano di rilevare la bottega paterna a causa di un avvenire incerto; e si cercava molto spesso di cambiare l’attività, o di accedere alle professioni grazie a studi scolastici o universitari. La concorrenza delle macchine e la degradazione del lavoro manuale rivelava la crisi di un rito di iniziazione sociale, che metteva capo a uno status sociale che non aveva più posto in una società in cui la trasmissione di conoscenze tecnologiche aveva tutto sommato un ruolo secondario. Per quanto riguarda la figura del commerciante, la crisi era iniziata più tardi, perché per tutto il XIX secolo c’era stata un’espansione del commercio al dettaglio. Nel caso istriano la relativa arretratezza dell’economia della penisola nei confronti di importanti realtà europee e il mancato take off avevano rallentato questi fenomeni posticipandoli nel tempo.
Documenti
PATTO DOTALE LUPIERI-ROVIS-1814
1814 settembre 19, Agrons Matteo di Giovanni Battista del fu Francesco Rovis di Agrons promette di dare in dote alla propria figlia Giacomina, promessa sposa di Matteo del fu Valentino Lupieri di Luint, 3172,33 lire, che verranno in parte pagate sotto forma di beni mobili il giorno delle nozze e in parte nei due anni successivi. Giovanna Straulino, madre della sposa, dà in dote alla propria figlia altre 634,48 lire. ASU-ANA, b. 2984, Carte di Giacomo Micoli. Trascrizione GL. N° 357
In Nome di Sua Maestà Francesco Primo Imperator d’Austria Re d’Ungaria, Boemia, ec Giorno di Lunedi 19. dicianove del mese di Settembre Anno 1814 milleottocentoquattordeci. Costituiti personalmente avanti di me Giacomo del fu Francesco Micoli Notaro munito di patente del S.r Sindaco di Mione data il 1. primo Luglio 1813. milleottocentotredici sotto il n° 2. due Li S.ri Gio:Battista del fu Francesco Rovis, Matteo di lui Figlio, Giovanna nata Straulino sua Moglie e Nuora respettiva, e Giacomina loro Figlia possidenti domiciliati nella Contrada di Agrons Frazion di Mione Circondario di Rigolato da una parte, e li S.ri Dottor Gio:Battista e Matteo Fratelli Lupieri del fu S.r Valentino possidenti domiciliati nella Contrada di Luint Frazione e Circondario predetto dall’altra parte.
Ed avendo con reciproca compiacenza da contrarsi Matrimonio tra detti S.ri Matteo Lupieri e Giacomina Rovis le Parti hanno conciliato le seguenti antenuziali relative condizioni. Primo. Li futuri Cunjugi dichiarano di maritarsi senza comunione ma colle leggi del regime dotale. Secondo. Il S.r Matteo Padre della Sposa coll’assenso e di volontà del S.r Gio:Battista Padre ed’Avo respettivo dal corpo della quota ereditaria, che gli pervenirà costituisce in dote alla Figlia la Capital Summa di £ 3172.33 diconsi lire tremillacentosettantadue centesimi trentatre; in conto delle quali le saranno consegnati alla celebrazion del Matrimonio Ecclesiastico li soliti mobili, ed ornamenti muliebri, previo inventario e Stima da farsi ad accordo, dichiarando che la Stima non ne trasferisca la proprietà al marito e la rimanenza sia al conguaglio della sudetta Dote sarà dalli S.ri Rovis soddisfatta entro il termine di anni due 2. prossimi venturi decorribili da oggi in poi, e pagabile con dinaro effettivo, o colla cessione di tanti capitali livellarj garantiti dal S.r dotante. La S.ra Giovanna poi costituisca pure in dote alla Figlia Sposa la Capital Summa di £ 634.48 lire seicentotrentaquattro centesimi quarantotto, egualmente pagabili entro al sopra fissato termine di anni due. Terzo. Il S.r Matteo futuro Sposo in caso di suo predecesso alla Sposa senza discendenti dona irrevocabilmente alla medesima l’usufrutto di tutta la sua facoltà, di cui essa goderà vita di lei naturale durante vivendo però in istato vedovile. Quanto. Nel caso, che detta Sposa rimasta vedova senza discendenti sceglierà di passar a un secondo matrimonio, oltre alla dote, e quant’altro avrà conseguito dalla Casa paterna avrà dal corpo della facoltà del marito a titolo di donazione la summa di £ 600. lire seicento, dalle quali la detta Sposa coll’assenso dè prefati Avo e Padre ora per allora fa irrevocabile donazione. Del presente atto sono stato rogato io Notaro sottoscritto conoscente le parti contraenti Fatto e stipulato essendo nel Tinello a pie piano a tramontana nella Casa d’abitazione dè sopranominati S.ri Rovis sita nella citata Contrada di Agrons Frazione di Mione Comune di Rigolato Dipartimento di Passariano e pubblicato nelle forme prescritte dal Regolamento Notarile alla presenza di Giuseppe Bulfon fu Giom Battista, e Valentino fu Pietro Felice ambedue domiciliati nella predetta Contrada di Agrons testimonj aventi le qualità legali senza eccezioni fu laudato dalle parti, le quali in conferma si sottoscrivono coi testimonj, e con me Notaro Gio.Battista Rovis Effermo che mio Figlio Mattio Affermi come entro nella sua porcione aspetante della mia Rendita eccetera Matteo Rovis di Gio.Battista Affermo
Giovanna Rovis, Giacomina Rovis, G. Battista Lupieri Matteo Lupieri Giuseppe Bulfon testi- monio Valentino Felice Testimonio Giacomo del fu Francesco Micoli Notaro del Passariano residente in Mione Tolmezzo li 3 8bre 1814 Registrato in Libro IV al foglio 46 col N° 942, e pa- gato il diritto il £ 4:32. come dalla Bolletta odierna al N° 877 Il Ricevitor del Registrato G. Michis 1815. 25 Marzo
Tratta copia autentica al S.r Matteo Lupieri 1848. 2. Giugno Busta n° 994
PATTO DOTALE ROVIS-MICOLI TOSCANO -1733
In Nomine Domini L’anno 1733 7 Agosto in Agrons
Qui presente il Signor Floriano Micoli quondam Signor Zuanne di Muina facendo per sé, ed a nome di sua Consorte Signora Cattarina Felicita, confessa haver riceputo dal Signor Antonio Rovis quondam Signor Giacomo suo Suocero in tanti mobbili per stima de’ Periti, come oltre per la Summa di £ 950:-, ed in tanto oro, cioè un Gioiello due Navicelle, un Cuore di Pirusini piccoli, ed una Turellina par £ 100:- con risserva di farli prezziare da persona di cognizione, e del più, ò meno, che valesero da bonificarsi, e rifarsi un l’altro. Più in Cecchini 13, ed, altra Moneta per la Summa di £ 300:-, che summano coll’oro £ 400:-, cosicchè al predetto Signor Antonio Rovis dottante resta di supplire per li mobbili £ 50:, et per il contante £ 100:-, le quali s’obbliga pa- garli il venturo anno, ed esso Signor Micoli s’obbliga farli la final quietanza prout in contractu; in segno della probalità le Parti si sottoscrivono di proprio pugno. Ed io Floriano Micoli affermo quanto di sopra, come anco per nome di mia Consorte.
Io Antonio Rovis affermo man propria Francesco Crusilla sive Toscano fui presente
Io Gion Battista Lupieri fui presente Valentino Agarinis quondam Eggreggio Biaggio d’Autorità Veneta Nodaro dai miei atti hò estratto, in fede di ciò son sottoscritto.
DEPOSIZIONE DI TESTIMONI-COSTRUZIONE DELLA CHIESA DI SANTA FOSCA AD AGRONS
1698 agosto 6, Agrons Su richiesta di Giacomo del fu Antonio Rovis e di Giacomo del fu Mattia Rovis, i fratelli Sebastiano e Giovanni Del Monaco dichiarano che la chiesa di Santa Fosca di Agrons era stata fondata nel 1682 da Antonio e Matteo Rovis. Dichiarano anche che detta chiesa ha un patrimonio di 30 ducati, tra beni mobili e denaro. ASU-ANA, b.2859, Libro dei protocolli di Giovanni Battista Colinassio. Trascrizione GL. I.C.N.A.
L’anno del Signore 1698, Inditione 6^, Giorno di Mercordì li 6 del mese d’Agosto, fatto nella Villa di Agrons, Quartiero di Gorto, nel portico della casa di D° Giacomo q.m Antonio Rovis, aciò presenti M° Sebbastiano del Monaco et M° Zuanne suo fratello ambi di detta Villa, Testimoni &c. Comparsi appresso me Infrascritto Nodaro, et Testimoni, M° Francesco q.m Bernardino del Monaco, et M° Francesco di M° Sebbastian etiam del Monaco huomini di detta Villa, quali per richiesta del sudetto D° Giacomo q.m D° Antonio Rovis, et da D° Giacomo q.m D° Mattio etiam Rovis, esposero come l’anno 1682 fù dalli suddetti DD q.m q.m Antonio, et Mattio Fondata è fabricata per loro devotione la Veneranda Chiesa intitolata di S.ta Foscha situata nella precitata Villa di Agrons, con obligo delli medemi fondatori, et loro heredi, già nominati, di mantenirla di tutto il necessario bisogno, et anco disser li medemi esponenti che la predetta Veneranda Chiesa non à alcuna altra entratta, salvo che dal principio sin hora presente si trova havere la suma di D.ti 30 circha tra Danari e Mobili et questi derivanti di leggatti lasciati da benefatori e di offerte, ellemosine cavate per il corso di detto Tempo; Affirmando li sudetti esponenti con loro Giuramento da mè Nodaro alli medemi prestato in debita forma d’esser così la pura verità, sottoponendosi di ratificar il presente, occorendo, avanti qual si sia Illustrissimo et Ec- cellentissimo Magistrato, et così &c.
CONTRATTO DI GARZONATO
1764 agosto 19, Chialina, Leonardo del fu Antonio Tolazzi abitante in Gorto stipula un contratto di garzonato per suo figlio dodicenne Antonio con Giovanni Battista del fu Francesco Rovis di Agrons. Il ragazzo rimarrà agli ordini dello stesso Rovis per sette anni, durante i quali imparerà “l’arte sartoria” e lo seguirà nei suoi spostamenti annuali tra la Patria del Friuli e l’Istria. Non essendo Antonio Tolazzi in grado di garantire al figlio gli abiti per il periodo di garzonato e di pagargli i viaggi da e per l’Istria, tali obblighi vengono assunti dallo stesso Rovis. In cambio il ragazzo rimarrà al suo servizio per sette anni anziché per i consueti cinque. ASU-ANA, b.620, Filza atti civili (Giovanni Daniele De Prato). Trascrizione GL. L.D.S.
1764 Carte 19 Agosto in Chialina
Casa del S.r Gio:Battist’Antonio Carlevarijs presenti li sogionti Testij &c Qui presente M° Leonardo q.m Antonio Tolazzo Abitante qui nella Pieve di Gorto ha accordato Antonio suo Figlio d’anni 12 circa a dar principio all’Arte Sartoria col Sig. Gio:Battista del fu Francesco Rovis nel seguente modo Doverà esso Antonio servire il sudetto Rovis anni N° sette si nel tempo che sarà nell’Istria, che quando ritornerà qui in Patria, a tutti que comandi di qualsivoglia sorte, che dalla discrezione del Patrone gli saranno comandati, e perche si è di solito, che il servitore sia obligato a servire a Gratis il Patrone solamente anni cinque, overo tre, e in tale caso contar al Patrone Ducati N° dieci, qual contrato non è al Caso il sudetto Tolazzo di poter abbrazziare, rapporto il di lui miserabbil stato, perche doverebbe soministrargli al Figlio ogn’anno il spendere nel portarsi nell’Istria, e mantenirlo vestito detti anni cinque, e in grazia che il Patrone s’è obligato di subito arivato nell’Istria di vestirlo, e mantenirlo vestito da Capo, a piedi durante detto contratto sono convenuti, ch’abbia a servirlo li sudetti due anni di più del solito e perche il Patrone deve a bel principio incontrare la spesa dei vestimenti come sopra da Capo a Piedi, che li soli primi abiti ascenderanno al Valore di £ 40:- circa e, perciò se a Caso il Servitore per non sottostare ai comandi del Patrone si dasse la fuga quando veramente dal Patrone fosse alimentato e vestito a miusura del di lui stato in tale caso accorda il Padre che il Patrone possa usare li più opportuni passi avanti quella Giustizia che s’atrovasse il Servitore per obligarlo a dover restituirsi al servizio del Patrone, senza la qual condizione non l’avrebbe ricevuto in suo servizio, tanto le parti promettono mantenire ed osservare sotto l’obligazione reciproca dogni loro avere in ampla, e solene forma &c. e per segno di verità le parti si sotoscrivono di proprio pugno Gio:Battista Rovis Aff.mo quanto di Sopra Io Mattio Rovis Laudo anome di M° Leonardo Tolazo per non saper lui scrivere Publicato resto laudato alla presenza delli SS.ri Valentino Mirai, e Francesco q.m Danielle Carlevarijs Testimonij &c.92.
D. BRHAN