Lasciata la chiesa San Bartolomeo a Opicina, 200 metri dopo c’è un bivio: a destra la strada piega verso la stazione ferroviaria di Opicina, a sinistra compie un’ampia curva e prosegue per Prosecco superando un cavalcavia. Trecento metri più avanti, sulla destra, si trova la provinciale per Rupingrande sulla quale, dopo 100 metri, si supera il primo passaggio a livello e, 700 metri dopo, se ne incontrano altri due. Al di là dell’ultimo passaggio a livello c’è un bivio. La strada per Rupingrande è quella di sinistra, che costeggia la recinzione della centrale elettrica. La strada di destra rasenta la linea ferroviaria sino alla provinciale per Monrupino.
Il bivio rappresenta il cuore della zona ferroviaria, con gli scali e gli edifici di servizio. Iniziata a Vienna nel 1842 dall’ingegnere ferroviario Carlo Ghega e portata a termine nell’estate del 1857, la Ferrovia Meridionale è vista ancora oggi come un’opera di alta ingegneria. Nel solo tratto Lubiana-Trieste fu necessario costruire una linea lunga 144 chilometri, e ciò benché la distanza che separa la due città sia, in linea d’aria, soltanto di 65 chilometri. Il superamento della palude di Lubiana impose la costruzione di un terrapieno lungo 2000 metri e alto sino a 16, al quale si aggiunsero tre viadotti, di cui quello di Aurisina, lungo 646 metri e alto 19, è ancora oggi uno dei più lunghi d’Europa. Detto ciò, ritorniamo al nostro itinerario nel punto in cui ci eravamo fermati. Subito dopo la curva della strada per Rupingrande, dove finisce il muro di cinta della centrale elettrica, si apre sulla destra un largo sentiero. Un altro è a pochi passi di distanza e vi si scorge un bunker ancora ben conservato. Insieme ad altri due e ad alcune casematte, faceva parte della Linea Emil costruita dai Tedeschi nel 1943 a difesa della centrale e della linea ferroviaria. Nome e data sono ancora leggibili sulla superficie di cemento.
Il sentiero si addentra in una vecchia landa con blocchi di calcestruzzo; è ciò che resta di un bunker distrutto con la dinamite. L’ambiente circostante dà l’impressione di degrado e abbandono a causa della crescita disordinata di arbusti e alberi, fitti e intricati.
Dopo un centinaio di metri il sentiero comincia a scendere verso una vasta dolina e a valle è sostenuto da un robusto muro di contenimento, in qualche punto franato, fatto per sostenere il passaggio di carri pesanti. Infatti finisce alla Cisterna della Ferrovia, detta anche Conca Romana. L’invaso, del diametro di circa dieci metri e profondo due, ha il perimetro rivestito da grossi blocchi di calcare alcuni dei quali sporgono formando un muretto di protezione. La cisterna è circondata da piante palustri e da alti alberi: sono grossi aceri ricci (Acer platanoides) e robinie (Robinia pseudoacacia). Alcuni tronchi marciscono al suolo e rendono evidente anche qui il degrado.
Qualcuno fa risalire questa cisterna all’epoca romana. Invece è stata costruita dagli operai della Ferrovia Meridionale, forse sfruttando uno stagno naturale. Assieme ad altre tre, situate nei dintorni, era uno dei punti di raccolta d’acqua per rifornire le locomotive dopo la loro salita sull’altopiano. Il sentiero inizia a quota 300 e il fondo della dolina si trova a 266. Si trattava di superare un dislivello di appena 34 metri e un percorso di 500 sino alla strada principale, da dove i carri con l’acqua raggiungevano comodamente la stazione ferroviaria. Dopo la visita della cisterna si ritorna sulla provinciale e si prosegue, ancora in direzione di Rupingrande, per 1.200 metri sino a incontrare il taglio dell’Oleodotto. A destra si apre un largo sentiero che corre parallelo ad esso e che, con un percorso di 1.200 metri, porta sulla provinciale per Monrupino. Senza il fastidio del traffico, si attraversa un paesaggio abbastanza vario lungo la pineta che sul lato sinistro è stata ripulita e sfoltita dalle latifoglie, mentre su quello opposto è ancora infiltrata dalla boscaglia. Si può ammirare un susseguirsi di campi solcati con file di blocchi sporgenti dal terreno. Nelle vecchie mappe catastali questa zona viene detta Debela Griza e se ne comprende la ragione, perché prima dei lavori di rimboschimento appariva come una pietraia desolata. Raggiunta la provinciale si percorrono solo 200 metri in direzione di Monrupino, poi si abbandona l’asfalto per imboccare, sulla destra, un largo tratturo forestale chiuso da una sbarra. All’inizio c’è un cartello con la scritta “Stagno e conca di Percedol – Oasi di protezione naturale”. Segue un elenco di divieti e delle multe per gli eventuali trasgressori. Il sentiero è marcato con i colori bianco e azzurro. Su un masso sono stati dipinti due cerchi bianchi contornati d’azzurro, dentro i quali c’è un delfino: strano emblema nell’ambiente carsico. Il percorso costeggia la Dolina di Percedol, delimitata da un muretto, ed è ombreggiato da cerro Lo si segue per 200 metri sin dove s’incontra un varco piuttosto stretto nel muretto; una traccia scende verso il basso lungo il versante orientale, attraverso un fitto bosco di carpini bianchi e robinie.
La Dolina di Percedol
La Dolina di Percedol è lunga 400 metri e larga 270. Il fondo è pianeggiante, di forma ellissoidale, lungo 150 e largo 70 metri. Il dislivello è di 34 metri e la media della temperatura, qui, è di ben due gradi e sei decimi minore rispetto a quella dell’area del parcheggio. L’umidità è di dieci punti maggiore. Dal punto di vista climatico, dunque, chi scenda sul fondo della Dolina di Percedol nel mese di gennaio è come se salisse su una cima di 630 metri che, sommati ai 300 del piano di quota, equivalgono a una montagna di quasi mille metri. Tale fenomeno è noto come “inversione termica”, ed è comune a tutte le doline. Per effetto di esso la vegetazione del fondo, come quella dei versanti, nelle doline presenta aspetti assolutamente peculiari.
Infatti se si osservano attentamente gli alberi, via via che si scende, si noterà che la vegetazione illirica, con il carpino nero e il frassino, scompare per lasciar posto al cerro e al carpino bianco. Ma è sul fondo, intorno al laghetto, che si trova la maggior varietà di piante. Oltre alle due citate, ci sono pioppi e olmi di crescita spontanea e altri alberi piantati dall’uomo: abete bianco (Abies alba), abete greco (Abies cephalonica), abete rosso (Picea excelsa), salice caprino (Salix caprea), salice piangente (Salix babylonica). Alla base del versante occidentale c’è un gruppo di cedri dell’Himalaya (Cedrus deodara) e sul lato opposto si trova un piccolo boschetto di querce rosse (Quercus rubra), pianta ornamentale introdotta dal-l’America del Nord e facilmente riconoscibile per le lunghe foglie oltre che per il colore rossastro del tronco. La curiosità maggiore di questa dolina è il Laghetto di Percedol, discretamente grande: 32 metri di lunghezza per 28 di larghezza e con una profondità di quasi 3, attualmente ridotti a due. Sono comunque circa 800 metri cubi d’acqua, il che ne fa una riserva idrica tutt’altro che disprezzabile nel nostro territorio. Viene alimentato dalle acque meteoriche che scorrono lungo i fianchi della dolina. Non è chiara la sua origine, cioè se essa sia dovuta al fondo impermeabile a causa di qualche ultimo brandello di Flysch o per l’accumulo di terra rossa ben compattata.
Genesi di una dolina tipica
1. La formazione di un punto di assorbimento accompagnato da altri di minore importanza attraverso gli strati calcarti, dà origine a una formazione a imbuto tendente ad allargarsi e approfondirsi.
2. Successivamente il punto centrale di assorbimento si chiude, e ai processi di demolizione e corrosione subentrano quelli di deposizione dei detriti sul fondo e lungo i pendii.
Genesi di una dolina di crollo
1. Da una o più fessure l’acqua penetra negli strati sottostanti originando una cavità che può essere anche di grandi dimensioni.
2. Proseguendo la sua opera di demolizione, l’acqua assottiglierà la copertura di superficie sinché questa crollerà originando un baratro che, con il tempo, si coprirà di terra acquistando così l’aspetto di una dolina.
Genesi di una dolina di strato
1. Su una formazione di calcari compatti in strati inclinati, si forma una fessura più estesa, che attira l’acqua lungo l’inclinazione.
2. Si forma così un pendio che viene eroso e corroso, mentre sul lato opposto restano, isolate, le testate degli strati che possono formare un riparo. E questo il tipo di dolina più diffuso sul Carso.
Un tempo sul Carso vi erano numerosi laghetti: lo provano i resti di pesci di stagno trovati nei depositi archeologici delle grotte. La presenza di questo stagno di Percedol è attestata già in documenti cinquecenteschi, nei quali la dolina viene chiamata Pertidol, cioè “dolina delle perticazioni”, poiché essa segnava il confine tra il territorio del Comune di Trieste e quello dei Signori di Duino. Pare che al laghetto venissero portati anche i cavalli di Lipizza durante i periodi di siccità.
Per risalire la dolina si usufruisce del largo sentiero ghiaiato che s’inerpica con alcuni tornanti lungo il versante occidentale, sboccando sull’area del parcheggio, ombreggiato da alcuni cedri dell’Atlante (Cedrus atlantica).