Nell’industria di caffè triestina Illy, che è diventata una holding, c’è anche un’università che spiega perché l’espresso italiano non è sempre buono come si pensa.
Prima di iniziare un discorso sul lavoro che fa Illy sul caffè, bisogna parlare un attimo del mondo in cui opera. Il caffè è tra quegli alimenti che in industria vanta un alto rischio di pessima qualità, riutilizzo di scarti di produzione e, cosa più vergognosamente importante, di sfruttamento in termini di manodopera e ambiente. Questo ha ovviamente ripercussioni in primis sulla salute del pianeta, e secondariamente sul consumatore finale, che la maggior parte delle volte beve un caffè poco potabile. Lì al bancone del bar. Qui, per evitare alla base che ci sia un pessimo espresso e per garantire pratiche corrette, vengono selezionate le piante, i produttori, ma soprattutto si fa formazione. Sì, ai baristi, quelli dietro il bancone del bar.
Per cui uno degli aspetti che fa marciare le cose per bene è la trasmissione di cultura sul caffè: da vent’anni Illy ha istituito una vera e propria Università del Caffè, che oggi conta 28 sedi sparse per il mondo. Aperta a professionisti, coltivatori e appassionati, da Trieste a Tel Aviv ci sono 120 insegnanti – che fanno un sacco di esami – che ti insegnano come estrarre perfettamente una tazzina di caffè, come degustarlo e che pressione mettere quando comprimi il macinato prima di attaccarlo alla macchina. “Ci sono più di 140 variabili in una tazzina di caffè”, dicono. Quindi basta un niente per fare una zozzuria imbevibile. “La quantità da mettere è di 7 grammi e la pressione da esercitare è di 20kg. La macchina, invece, deve stare a 9 atmosfere. Il volume standard è di 20-25 ml per tazzina e spieghiamo che ogni regione ha le sue tradizioni tra espressi lunghi o corti, ma per avere una crema perfetta quella è la quantità.”
Mi sono sempre chiesto perché sia molto facile rimandare indietro un piatto venuto male, mentre per l’espresso ci si accontenta spesso di brodaglie bruciate. Probabilmente perché costa poco e non abbiamo pretese, ma siamo pur sempre i più grandi cultori del caffè espresso, quindi non vedo perché accontentarci. Sta di fatto che ora lo sapete, cari baristi, eroi della mattina che servono centinaia di caffè a ripetizione ricordandosi gli ordini stravaganti di ogni essere umano ancora mostruoso per la sveglia pre-lavoro: fare una tazzina di espresso perfetta si può fare e se non la sapete fare, qui ve la insegnano in maniera metodica.
Se siete dei veri cultori del caffè espresso, lo sapete benissimo: quando ne volete uno e non c’è il vostro bar di fiducia a portata di mano, le possibilità di bere una schifezza sono alte. Potrà essere troppo stretto, troppo lungo e in generale, sarà spesso una tazzina bollente buttata sul piattino al banco. Rancida, acida o bruciata. Alla base di un caffè immondo c’è in primis la miscela: se prevale la robusta e la marca ha un simbolo sconosciuto, già non ci siamo. Ma se invece la miscela è quella giusta, sta tutto nelle mani del barista. “Spesso i baristi non si rendono conto di quanto lavoro ci sia dietro un kg di caffè, sanno solo che si vende a poco”, dice un esperto della Illy. In sostanza, per lavorare in fretta, il barista carica una quantità non precisata di caffè, lo attacca e fa partire l’estrazione, che si fermerà a seconda della mole di lavoro che ha o delle abitudini che ci sono in quella città. Ogni caffè deve avere la stessa grammatura, la stessa pressione del braccio e la stessa durata di estrazione. E lo riconoscete, perché ha una crema marroncina perfetta, a causa delle rotture delle molecole degli olii del caffè con l’acqua bollente. Se è arabica, fa una schiuma più densa, sappiatelo, perché ha più olii.
E se a parità di miscela, pressione, tempo e tutte le cose tecniche, il caffè viene diverso da un barista all’altro? LA MACCHINA DELL’ESPRESSO DEVE ESSERE SEMPRE PULITA. Il calcare che si deposita fa passare meno acqua, meno potente e lo fa diventare acidulo, tendente al rancido. In più i granelli che rimangono incastrati nel filtro, ovviamente, vanno a male.
L’altra questione importante per cui si spende Illy è la sostenibilità e le corrette pratiche di lavoro: i prezzi dei chicchi non tostati, subiscono cambiamenti così drastici, che non è difficile incontrare periodi dove la vendita dal contadino all’azienda lascia al primo un margine di guadagno di un centesimo per tazzina. Senza contare i numeri che implicano una deforestazione e un impatto sul clima sconcertante: per dirne una, nel solo Brasile, dove viene prodotta la maggioranza di varietà robusta (tendenzialmente quella con più caffeina e meno olii), i campi dedicati alla coltivazione di caffè coprono 2.400.000 ettari. Ecco, Illy ha scelto di non alimentare questa politica di sfruttamento, per nessuna ragione al mondo. Tanto da aver vinto, per sette anni di fila, il premio “Most Ethical Company Awards”, unica italiana e unica azienda di caffè. “Siamo i piccoli tra i grandi”, ha detto Daria Illy, nipote di Ernesto Illy (quel signore che ha inventato il caffè porzionato) e ambasciatrice del caffè nel mondo.
A passare vicino alla fabbrica Illy, ti senti invaso dal profumo del caffè appena macinato.
Per chi non ne avesse idea, Illy è tutt’ora uno dei massimi esempi di un’azienda a conduzione familiare. E sono fermamente convinti che l’unico modo per essere parte dell’eccellenza sia quello di lavorare puliti e fare cultura.
Fondata nel 1933 da Francesco Illy a Trieste, ha continuato a passarsi di generazione in generazione fino a quella attuale, la quarta, senza mai perdere un colpo. Si sono inventati delle cialde monoporzione prima che le vostre Nespresso fossero state minimamente pensate, nel 1974. Hanno brevettato la macchina per l’espresso da bar, così per dire.
Tutto ciò facendo un lavoro sulla qualità: i produttori che li riforniscono vengono scelti dopo una visita sul campo, che prevede controlli e suggerimenti di pratiche agricole all’avanguardia.
“Il lavoro sulla sostenibilità è iniziato con il lavoro sulla qualità”, dice Moreno Faina, coordinatore didattico dell’Università del Caffè che hanno in sede. “Il blend, dagli anni ‘70 è di nove varietà di caffè esclusivamente arabiche, che vengono da India, Brasile, Costa Rica, Guatemala, Colombia ed Etiopia.” In ognuna di queste piantagioni passa regolarmente un agronomo che parla la lingua locale e si accerta che le pratiche agricole siano rispettate e pulite. “Per dare un ulteriore incentivo agli agricoltori, abbiamo istituito anche una challenge che premia il coltivatore più corretto dell’anno. L’anno scorso l’ha vinta una ragazza del Rwanda,” mi dice Daria Illy. Oltre alla sostenibilità, Daria si spende in prima persona per la questione femminile. Pochi anni fa, nell’International Coffee Day, ha fatto servire nei bar di mezza Italia solo mezza tazzina di caffè “perché senza le donne che lavorano non avremmo metà della tazzina che beviamo.” Sostiene associazioni di coltivatrici in Colombia e ha istituito programmi di formazione sul caffè in Etiopia.
Andrea Strafile – vice.com