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Animalisti: “Il ritorno della sanguinosa tradizione sul carso triestino”

Il Partito Animalista di Trieste si scaglia contro gli allevamenti di animali sul nostro Carso. Ecco la nota odierna:


“Il caso degli allevamenti sul carso triestino una brutta storia del passato che si ripete. Un’intera pagina di un quotidiano locale dedicata ad un allevatore che imprigiona ovini e li sfrutta per avere profitto. La notizia parla di un allevamento di Ceroglie, in provincia di Trieste, un progetto supportato da inconsapevoli famiglie che pagano per adottare a distanza un agnello che verrà sfruttato tutta la vita come avviene da generazioni e come avverrà per le generazioni a venire. L’abilità di chi “vende” l’allevamento sta nel dargli un tocco di green, parlando di tradizione, prevenzione degli incendi boschivi, tutela della biodiversità, senza mai accennare allo sfruttamento degli animali ed ai coltelli che taglieranno le gole dei poveri animali quando non più produttivi. Un solo scivolamento, quando parlando degli incendi boschivi gli allevatori fanno trasparire il loro punto di vista antropocentrico, descrivendo il danno economico provocato dalla minor quantità di latte prodotta, e non la fame delle povere pecore.

Potrebbe portare ad una dissonanza cognitiva leggere sulle pagine dello stesso quotidiano che altri ovini, questa volta però liberi, sono invece una minaccia alla biodiversità e possono portare alla desertificazione del carso. È il caso delle capre libere nella Val Rosandra, arrivate presumibilmente dal carso sloveno queste hanno trovato nel parco dolinese un ottimo rifugio, ma il rischio di danni alla biodiversità è concreto: è una storia che è già accaduta.
Un testo dell’anno 900 conservato presso l’Università di Trieste dell’Ispettore forestale provinciale e membro della Commissione d’Imboschimento del carso Pucich racconta nel dettaglio perché si è deciso di piantare delle pinete di pino nero sul carso triestino «l’erba deve farsi perciò vieppiù scarsa e meschina ed il pascolo ognora più magro, mentre le sementi dell’erba che per avventura il vento portasse in quei luoghi, non trovano il suolo confacente per germogliare. Né possono rigenerarsi i luoghi a poco a poco snudata dall’erba per la propagazione naturale, poiché, in seguito al pascolo incessante, l’erba non giunge a fecondarsi».

Il pascolo ha portato solo danni, prima di tutto agli animali, in secondo luogo all’ambiente in cui essi sono costretti. Lanciamo pertanto un appello alle famiglie: prima di pagare 150 euro pensando di far del bene ad un agnellino, pensate che state alimentando una catena di sfruttamento e di morte”

Fabio Rabak
Coordinatore regionale PAI

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