La ripartenza di Trieste, chiude la ferriera e il porto entra nel futuro – Ne parla il Sole24Ore
Dopo la forma dell’accordo di programma, a Servola rimarrà il laminatoio del gruppo Arvedi. Sull’area la nuova piattaforma logistica e un hub ferroviario, saranno investiti 300 milioni. Tutelati gli attuali livelli occupazionali
Da il Sole24Ore riportiamo un articolo interessante:
Marginale rispetto all’Italia, centrale rispetto all’Europa. Il destino di Trieste è sempre incatenato tra la nostalgia del passato e il timore di provare a rivivere quel passato. Così anche la chiusura della Ferriera di Servola diventa, in queste ore con la firma dell’Accordo di programma, a suo modo epicentro di una svolta narrativa della città, del porto e della vocazione economica che rappresenta. Perché la ghisa in questo ultimo lembo di terra prima dell’Istria è stato per anni un affare tutto mitteleuropeo. Iri, Ilva, Cassa del Mezzogiorno arrivarono molto dopo.
Nel 1896 fu infatti la Krainische Industrie Gesellschaft di Lubiana a realizzare l’impianto. L’Impero Austro-Ungarico aveva anche costruito la ferrovia che collegava il Porto Nuovo con Vienna. Gli stessi binari utilizzati fino a oggi, fino a poche settimane fa, per fare risalire le merci dall’Adriatico: l’area a caldo di Servola è stata spenta l’otto aprile di quest’anno, in pieno lockdown. Era l’ultimo altoforno presente in Italia oltre a quelli di Taranto.
Fine e inizio
Centoventiquattro anni è durata l’epopea della ghisa a Trieste. Una storia che ben presto è diventata molto italiana con i passaggi di proprietà in mano pubbliche fino alla privatizzazione, con chiusure e tentativi di rilancio. Pittini, Lucchini, Bolfo, Malacalza e e i russi di Severstal. E poi l’amministrazione straordinaria con il commissario Piero Nardi. Ma le acciaierie sporcano, si sa. E Servola ha vissuto anni di superficiale abbandono ambientale.
Polveri, idrocarburi cancerogeni e Pm10 oltre i limiti. Solo che rimodernare l’industria è molto costoso – grandi capitali, grandi risorse – e allora si è preferito sversare fanghi in acqua, non coprire i parchi minerari. Con l’incognita del vento che spargeva e riportava inquinanti sulle case del rione costruite sulla collina proprio sopra quello che qualcuno comincia a chiamare il “mostro”: l’Ilva del Nord Est.
Tra le strade di Servola
Qui, proprio come a Taranto, si sono registrati i primi studi sulle malattie e sull’incidenza del cancro tra chi lavora in acciaieria. A visitarlo però il rione di Servola è tutt’altro che una periferia abbandonata al suo destino. Le palazzine di quattro piani costruite per gli operai sono immerse nel verde. In questi anni hanno anche cambiato proprietari, nuove famiglie hanno preso il posto delle vecchie, tanto che alla fine non sono più molti quelli che hanno a che fare con l’impianto. Tra gli abitanti molti erano esuli istriani fuoriusciti dai campi di accoglienza: un pezzo di storia che contamina un altro pezzo di storia.
Alda Sancin è presidente di No Smog, la storica associazione degli abitanti del rione. Apre la borsa e tira fuori un filtro d’aria nero come il carbone. Sopra c’è una data. Tre marzo 2020. «Questa era l’aria che respiravamo – dice -, e il peggio non era l’altoforno, bensì la cokeria. All’inizio non era così, l’impianto era molto più piccolo poi negli anni hanno dato il permesso di ingrandire e ingrandire ancora. Fino a lambire le case, alcune sono a centocinquanta metri. E il rumore di notte era insopportabile».
La questione ambientale
Ventitrè esposti in Procura ma pochi risultati concreti. «Le analisi le facevamo a nostre spese ma abbiamo ottenuto solo pochi risarcimenti per i danni. Qualche migliaia di euro in tutto per ricoveri e cure dovute all’inquinamento della fabbrica», prosegue. Ecco perché c’è anche un po’ di incredulità per il risultato ora raggiunto. «Tutela ambientale, rilancio della città e del suo porto e garanzie per i lavoratori – elenca Adriano Tasso, il segretario dell’associazione e curatore del sito Basta Ferriera -. Ma nessuno si metta medaglie sul petto». Anche se poi un nome lo fa. Ed e quello di Zeno D’Agostino, ex presidente del porto ora commissariato, a favore del quale di recente tutta la città si è mobilitata.
Così nel tempo Trieste ha emesso la sua sentenza: chiudere Servola. Questo nonostante negli anni passati molte amministrazioni abbiano spinto per il rilancio dell’attività produttiva di Servola: quelle guidate da Riccardo Illy a Debora Serracchiani su tutte. Con il triestino Stefano Patuanelli al ministero dello Sviluppo economico, Roberto Dipiazza eletto sindaco e Massimiliano Fedriga in Regione, le pressioni per la chiusura di Servola e per la svolta sono diventate però sempre più insistenti.
Gli interessi in campo
Anche perché non è solo la politica a muoversi. Il porto con la visione di Zeno D’Agostino ha ritrovato una strategia di competitività internazionale in diretta concorrenza con la vicinissima Capodistria. «Gli ungheresi – dice l’attuale commissario dell’Autorità di sistema portuale Mario Sommariva – hanno già acquistato 300mila metri quadrati proprio dopo l’attracco delle petroliere che servono l’oleodotto per l’Austria e la Germania. Si era parlato di interessi cinesi che al momento però sono in stand by. Per quanto – si lascia scappare – ci sono sorprese in arrivo».
A proposito infatti di vocazione mitteleuropea oltre alla società di Stato di Budapest, in fila per una presenza più organizzata ci sono pure le Ferrovie austriache. E la Ferriera è proprio al centro quasi geometrico dei nuovi investimenti previsti del piano regolatore del Porto. «Con la nuova piattaforma logistica davanti al molo sette e il possibile e progettato molo otto – spiega Sommariva – che potrebbe dare enormi spazi di crescita ai traffici».
Il treno è il baricentro dello sviluppo possibile, con la messa a regime delle tante infrastrutture che già c’erano, racconta ancora il Commissario.
Amministrazione, cittadini e porto. Interessi diversi che si sono sovrapposti. All’appello mancavano solo la proprietà delle aree e dell’acciaieria, il gruppo Arvedi e le rappresentanze dei lavoratori alla ricerca di garanzie.
«Questo è uno dei giorni più tristi nella mia lunga vita di lavoro», aveva commentato Giovanni Arvedi il giorno della fine dell’operatività dell’area a caldo. Il gruppo di Cremona ha rilevato Servola nel 2014 e con un impegno di rispetto delle prescrizioni ambientali aveva riattivato la produzione di ghisa e insediato una nuova unità produttiva di laminazione a freddo. Poi «su richiesta formale delle istituzioni locali ha deciso di avviare il processo di decarbonizzazione e riconversione industriale». Facendo partire diversi investimenti.
Il futuro
Nell’Accordo di programma firmato sabato 27 giugno 2020, nell’area della Ferriera è prevista la creazione di un polo logistico in porto e di dare il via a una attività di riconversione industriale centrata sull’attività siderurgica a freddo guidata dallo stesso Arvedi e su una piattaforma di gestione container e organizzata da Icop, che si avvarrà anche di un nuovo snodo ferroviario e dall’ampliamento della banchina portuale.
«Icop con un altro partner internazionale – dice l’amministratore delegato Vittorio Petrucco – si occuperà della piattaforma e di trasformare il sito di Servola in una grande punto di interscambio ferroviario. Un investimento di 100 milioni». Ad Arvedi toccherà anche il revamping della centrale elettrica e manterrà l’accesso al mare di proprietà per la movimentazione delle navi che serviranno pure lo stabilimento di Cremona.
Tra i firmatari dell’Accordo, lo Sviluppo economico, il ministero Ambiente, Demanio, Agenzia per il lavoro, Autorità portuale, Regione e Comune. Il nodo finale è stato quello occupazionale: 580 dipendenti diretti e circa 60 interinali. Saranno circa 400 i posti di lavoro garantiti mentre gli altri verranno assorbiti dalle società che si occuperanno delle bonifiche con la disponibilità pure di Fincantieri. A gennaio era arrivato anche il sì degli operai con 277 voti favorevoli e 192 contrari, che non ha però evitato la netta divisione con la Fiom che aveva contestato l’intesa per la parte relativa al riassorbimento delle eccedenze.
«Ci siamo trovati a gestire questo passaggio di bonifica e reindustrializzazione con il potenziamento del laminatoio – dice Antonio Rodà della Uil di Trieste – voluto dalle amministrazioni. Nevralgico sarà vedere confermate le premesse occupazionali che al momento sembrano positive».
In questa partita gli investimenti di Arvedi per questa operazione sono di circa 200 milioni di euro, 150 su Trieste e 50 per Cremona. Cinquantacinque milioni sono i fondi agevolati messi a disposizione dal pubblico. Giampiero Castano, che per il gruppo siderurgico ha seguito il dossier di Servola e che in passato ha pure seguito il tavolo delle crisi industriali del Mise, sottolinea come il modello Trieste possa essere replicato anche in altre realtà. «La chiave – dice – è la regia pubblica, anche nel caso dell’Ilva di Taranto serve un grande progetto di modernizzazione e di decarbonizzazione per fare tornare quella fabbrica all’avanguardia europea e poi rimetterla sul mercato o trovare partnership private all’altezza. I manager all’altezza in Italia ci sono, così la grande industria può avere un futuro».
Luca Benecchi – Sole24Ore